All'interno fa freddo - Racconti dal carcere

“Quando sei in carcere, è come se nuotassi in una piscina. Appena esci, sembra di trovarti all’improvviso in mare aperto”. Io e il tutor rimaniamo per qualche istante in silenzio quando un detenuto, dentro a una saletta colloqui del carcere di Rebibbia, ci spiega il suo primo impatto con il mondo esterno. È una similitudine che calza a pennello. La libertà è il sogno quotidiano di ogni detenuto; il mondo fuori è una delle più recondite paure. Perché spesso nemmeno lo riconosci più, e non basta averlo osservato attraverso la televisione. Così, il primo attacco di panico della sua vita, Cosimo, detenuto di lungo corso, lo ha vissuto dentro la metropolitana di Roma. Quel mare aperto e agitato che gli ha fatto paura. Se è vero che anche i luoghi hanno un’anima, il carcere è di certo saturo di umanità, ereditata da tutti quelli che vi hanno vissuto. Ognuno con la sua storia. Dalle impronte di scarpe sul muro di una cella si può indovinare la rabbia di chi lo ha scalciato, quasi a voler cercare di abbattere quella barriera invalicabile. Dalle scritte, immaginare gli amori perduti, oppure i giorni che passano, sempre uguali, come le piccole croci in fila, una accanto all’altra. Sebastiano ha imparato a muoversi nel piccolo spazio a disposizione seguendo un rituale studiato nel rispetto di chi divide la cella con lui: “Poco più di 6 metri quadri che bisogna gestire lavorando soprattutto nell’ombra, in qualche caso scomparendo”. C’è chi non rinuncia alla propria passione per la cucina, regalando un tocco di allegria e di buona tavola ai compagni, anche se “riuscire a fare una parmigiana, utilizzando uno sgabello come forno, non è cosa da tutti”. I pacchetti vuoti delle sigarette possono servire invece a costruire mensole e cestini portatutto, un lontano ricordo delle piccole comodità di casa. Colpisce la capacità di adattamento a condizioni di vita spesso insopportabili, anche umilianti per la persona. Alcuni racconti assomigliano alla cronaca di un corso di sopravvivenza più che a un periodo di espiazione della pena e di recupero dell’individuo. Chi resiste, chi ne esce migliore di prima, è perché ha trovato un solido appiglio cui ancorare la propria vita, che è il desiderio di conoscenza. La voglia di studiare, di leggere e poi di scrivere aiuta a guarire la mente, persino la più ostinata. Così la scrittura diventa anche strumento di contatto con il mondo esterno, un modo per mettersi a nudo. È un atto di libertà. Un’evasione che non infrange regole. Ne scaturiscono racconti che lasciano attoniti per intensità e capacità descrittive, che calano il lettore in un mondo che respinge e allo stesso tempo attrae.
Le venticinque storie di questo libro sono storie di donne e uomini, adulti e adolescenti, italiani e stranieri, che raccontano esperienze di vita distanti fra loro ma che scorrono in parallelo, perché la destinazione finale è la stessa. Il carcere. Un inferno dove fa freddo: uno spiffero dalla finestra rotta, un corpo seminudo in una cella d’isolamento, luoghi angusti in cui si gela, anche se si è in sei a respirare.
Soprattutto, è il freddo che senti dentro e che ti fa tremare l’anima. Storie off limits per il mondo fuori, storie di vite vissute sull’orlo di un precipizio da cui si è inevitabilmente caduti. Spesso sono state le esperienze dell’infanzia a tracciare un destino: l’iniziazione alla criminalità organizzata, gli abusi sessuali e le botte di una madre, l’obbligo di uccidere quando sei stato chiamato alla guerra, sia essa contro un clan rivale oppure contro i ribelli del Darfour. C’è la violenza sulle donne il cui “corpo palpato, lisciato e usato come acqua, farina e sale nelle mani della cattiva massaia riduce l’anima in brandelli”, ma anche la totale indifferenza alla fine di una vita. “Prostituta nigeriana si suicida in carcere. Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità”. L’idea della morte per “andarsene privandosi di quell’aria malsana che avvelena l’esistenza”, affiora e svanisce, riaffiora e si concretizza: “Dispose lo sgabello, vi salì sopra, si assicurò il cappio intorno al collo…”. Chi è arrivato da lontano, dove la casa in cui viveva era peggiore del carcere, concentra il proprio racconto sul prima, sul viaggio che, a chi legge, sembra di rivivere assieme al protagonista: la traversata dalla Libia a Lampedusa su un gommone sgangherato, in una notte senza luna. All’improvviso, in mezzo al mare, il motore si spense e fra i componenti il carico umano che stava faticosamente trasportando, calò un silenzio irreale. Storie di carcere, di com’era ieri e di com’è oggi. È aspro il ricordo dell’Asinara e di chi è stato umiliato in massima sicurezza. Di chi, “fine pena mai”, non varcherà quel muro di cinta. Alcuni racconti spiccano per qualità letteraria giocando su scambi di ruolo – il detenuto indossa improvvisamente i panni di un poliziotto penitenziario e il poliziotto si ritrova detenuto –, avvincenti storie di vendetta, e persino una nevicata che non ti aspetti. Narrativa pura.
Non c’è autocommiserazione in questi scritti. Non si avverte la ricerca di una giustificazione ai propri errori, a volte gravissimi. Basta leggere alcune affermazioni, nette, asciutte, che non lasciano adito a dubbi: “Sono un delinquente. Condannato, definitivo”. “Mi è parso di essere sempre stata accompagnata da un senso d’inadeguatezza, quasi di colpa”. “Nacque in me la curiosità di giocare a guardie e ladri, ma per davvero”.
“Avevo solo 14 anni, non avevo più limiti”. Quando poi è un adolescente che scrive “Da circa tre anni faccio parte del gruppo di fuoco, che ha il compito di difendere il territorio e chi conta nel clan”, oppure “Se proprio devo morire, voglio farlo da leone”, convinto che sia eroica la propria fine durante un conflitto a fuoco, sorge naturale domandarsi se quel ragazzino avrà mai un futuro migliore. Un’infanzia violata, che, anziché sui banchi di scuola, ti conduce diritto nell’abisso, traccia segni indelebili, tatuaggi nell’anima che si mostrano anche attraverso i racconti degli adulti.
Ma la mente, così come il corpo, è capace (non sempre) di trovare nuova energia. Più semplicemente, affiora la voglia di vivere. Ed ecco che Francesco, quando sembra giunto al capolinea, si risolleva e sogna “di piangere e di sorridere perché è affamato di vita, anche se fa male da morire”. E c’è persino chi, con un totale di anni a doppio zero da scontare, riesce a ritrovare l’allegria perché, dice “In fondo il tempo siamo noi”.
Hanno introdotto i venticinque racconti dal carcere, altrettanti tutor – scrittori, artisti e giornalisti – che si sono calati nella storia loro affidata, nella vita, o stralci di vita, che ogni autrice e autore ha voluto narrare, svelare. Ne sono scaturiti binomi perfetti fra persone distanti ma in fondo vicine, perché unite da quel filo invisibile che si chiama scrittura.
Il privilegio di entrare in contatto con tutte le storie rappresenta per me, ogni volta, un’esperienza umana irripetibile, che apre nuovi interrogativi e suggerisce risposte inedite. Durante questo percorso, iniziato diversi anni fa, è come se avessi scomposto un puzzle e stessi rimettendo insieme i tasselli, ma l’immagine che si sta delineando è diversa. Oppure sono i miei occhi che ora la vedono così. Il faccia a faccia col male innesca una metamorfosi dalla quale non si torna più indietro. Dalla quale non voglio più tornare indietro.

Antonella Bolelli Ferrera

Promotori

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