ATONEMENT – Prefazione di Antonella Bolelli Ferrara

Ho cominciato molti anni fa a occuparmi del mondo carcerario e dei suoi abitanti. Il mio approccio era quello della giornalista che registra e ripropone al proprio pubblico (nel mio caso gli ascoltatori della radio), ciò che ha visto, sentito, catturato durante le visite e le interviste ad alcuni detenuti negli istituti di pena.  

A mano a mano che mi addentravo di più in quel mondo, avevo la sensazione di non riuscire a scavare oltre la superficie e a costatare, in fondo, ciò che già si sapeva: sovraffollamento, celle sporche e insane, convivenza forzata, possibilità quasi nulle di lavoro e quindi di reinserimento una volta fuori. E poi il drammatico aspetto degli atti di autolesionismo, un grido di dolore di chi vuole essere ascoltato. E di chi, quel grido, lo porta all’estremo gesto, togliendosi la vita. 

In quei luoghi oscuri, maleodoranti, gelidi d’inverno e roventi d’estate, dove un’umanità varia per età, cultura, provenienza geografica ed etnia, vi trascorre anni e a talvolta la vita intera, c’era qualcosa che a tratti mi portava lontano. Il pensiero delle vittime. 

Non ne parlano volentieri, i carcerati, delle loro vittime. Nel loro vocabolario sembra non esistere questa parola. Ma con il tempo, ho compreso che non sempre e non tutti lo fanno perché dentro di loro non si muova alcun sentimento, che sia di pentimento o di una presa di coscienza che il proprio cammino criminale abbia portato non solo alla perdita della propria libertà, ma soprattutto ad arrecare tanto dolore ad altre persone, privandole in molti casi del bene più prezioso: la vita.  

Qualcuno ha cominciato ad aprirsi, a raccontare, a svelare intimi segreti. A poco a poco sono diventate molte le testimonianze che ho raccolto. Non ho mai avuto il coraggio di pubblicarle.  

Mi sembrava di approfittare di chi mi aveva dato fiducia e si era in qualche modo svelato come non aveva mai fatto. E come forse non avrebbe fatto mai più.  

Fu allora che misi in pratica un progetto che avevo in mente da tempo, quello di realizzare un concorso letterario dedicato esclusivamente alle persone detenute. Un concorso a cui partecipare con racconti autobiografici. Allora sì, che portare fuori dal carcere quelle storie, sarebbe stato frutto di una esplicita volontà di chi le aveva scritte.  

Nacque così il Premio Goliarda Sapienza, intitolato alla scrittrice siciliana che dopo un’esperienza di carcerazione, scrisse il romanzo L’Università di Rebibbia.   

Era il 2010. Il primo concorso si realizzò nel 2011. Giunsero più di cinquecento racconti da tutti i penitenziari d’Italia. Un’enormità. E da allora è stato sempre così: valanghe di pagine, a volte corredate di disegni o di lettere di ringraziamento, spesso scritte a mano su fogli di fortuna, da uomini, donne, italiani, stranieri, tanti stranieri.  

Hanno partecipato anche ragazzini detenuti negli istituti penali minorili. Sono andata a trovarli al «Malaspina» di Palermo (il minorile dove nel 1989 girarono il film Mery per sempre di Marco Risi), al «Bicocca» di Catania, al «Beccaria» di Milano. Li guardi e non ci puoi credere. Non ti capaciti, di come quei due quattordicenni che stanno svolgendo attività ricreative con un mediatore culturale, possano essere due «scafisti», oltre a tutto il resto. Quando li incontro stanno suonando degli strumenti e uno dei due canta. Musica etno, che gli esce naturale, da dentro, senza sforzo.  

Non puoi credere che quel ragazzetto con il viso d’angelo, biondo, occhi azzurri e occhialini da studioso, abbia due omicidi sulla fedina penale e sulla coscienza. Che a quindici anni faccia parte di un clan mafioso. E che lì rinchiuso, perpetui, come fanno altri del resto, le stesse dinamiche dei clan malavitosi che imperversano all’esterno.  

Vengo a sapere che è il figlio di un piccolo boss, attualmente in galera nell’edificio adiacente al minorile. Attraverso sistemi immaginabili e non, mi dice il comandante della Polizia penitenziaria, gli adulti «fanno sapere» che cosa sta succedendo fuori, in città: accordi, patti, ma anche capovolgimenti di alleanze dalle conseguenze sanguinose. Così, anche all’interno si creano e si sciolgono amicizie e coalizioni. Il fatto è evidente e richiede particolare controllo da parte degli agenti e degli altri operatori del carcere minorile. Basta un attimo per non riuscire a scongiurare il peggio. 

Molti detenuti adulti di oggi, sono stati ieri uno di questi ragazzini dall’aria innocente o da impuniti. Ragazzini nati e cresciuti in mezzo al male, divenuto il compagno di un’intera esistenza. Giovani vite negate, violate. 

Il carcere è stata la naturale conseguenza. Lo è stata anche per Salvatore Torre.  

Salvatore l’ho conosciuto diversi anni fa, grazie ai racconti con cui ha partecipato più volte al Premio Goliarda Sapienza. Fui colpita dal suo modo di scrivere, dalla scelta dei soggetti sempre ispirati alle storie di mala della sua terra, la Sicilia. Storie che gli appartengono. Che oggi gli hanno regalato molti riconoscimenti letterari. Ieri, quasi trent’anni fa, il carcere.  

È a lui che ho proposto di lavorare al progetto che ha dato vita a questo libro, il cui titolo Atonement – Storia di un prigioniero e degli altri già suggerisce al lettore lungo in quali sentieri stia per addentrarsi. 

I protagonisti di queste storie, tracciate a volte da un brano o anche da una semplice frase, sono persone detenute che hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza nel corso delle diverse edizioni. Durante il concorso, ai loro racconti ne furono preferiti altri, ma tutti possiedono una loro dignità letteraria o di pensiero e qui, nei brani riprodotti, emerge con forza.  

Chi parla sono anche le donne, un mondo a parte nell’universo carcerario, che meriterebbe (e presto otterrà) una narrazione a parte. Le loro sono voci dirette, a volte rabbiose, che arrivano come una stilettata. Ci sono delle madri fra loro.  

Ciò che racconta Atonement lo lascio invece alle parole di Salvatore Torre. È lui a guidare il lettore. Lui che ha scelto i brani e vi si è immedesimato, avendo egli stesso nella sua lunga detenzione, e ancor prima, da malavitoso, tutto visto, conosciuto, sentito, provato. Nulla può nascondersi al suo sguardo.  

I suoi corsivi, che anticipano ogni capitolo, divengono il fulcro del libro. Salvatore si è calato nelle storie degli altri, compiendo, forse per la prima volta e a sua insaputa, un’opera di revisione di se stesso, che finisce per diventare la vera storia del suo percorso criminale. Una storia che credevo di conoscere.  

«Ricordo il fucile di precisione, quel cannocchiale attraverso cui Sergio, uno dei tre emissari di mio padre, mi lasciò per mirare, di notte [] un primo assaggio del mondo reale della malavita. Avevo dodici anni, forse tredici». 

 

Accanto al nome di Salvatore, voglio affiancare quello degli autori dei vari brani, illuminanti di un mondo che crediamo così distante dal nostro, ma più ti avvicini e più senti che così non è. Imparare le ragioni di tante vite sbagliate, di tanti atti scellerati, non significa giustificare, ma capire le dinamiche del disagio che diviene devianza in un viaggio di sola andata.   

Grazie, SergioMonicaCinthiaDonatoRobertaFlorenceEfisioAdrianoMarianoRiccardoAmerigoMariaBechirRaduVitoAngelicaAlessandroClaudiaElisonMaurizioPabloIonDanieleLucioFrancescoSilvioLucaUlisseSantoGianniBrunoVincenzoGiulioHakimCristianAmedLulzimZoeTuriPatriciaGaetanoJulianSpartacoLuigiLuciaCarmineAntimoYordanovMarcoDiegoPetritMariusGurnaPavelAbdelFortunatoDavidCarmeloBiagioBrigidaDanielaStregaDomenicoMicheleSergioGiovannaFrancescaCrisCiroBabyBMEmilioLapoHermesSabrinaGennaroGiovanbattistaPeppinoMarcelloAhamed e ai tanti AntonioSalvatoreGiuseppeCristianoPasqualeMauroRaffaeleMassimilianoNicolaMario. 

Di tutti loro ho perso le tracce, mi piacerebbe che qualcuno si riconoscesse in uno dei brani del libro e tornasse nella grande famiglia del Premio Goliarda Sapienza, per raccontarci, se c’è stata, la sua nuova strada.    

 

 

Ho chiesto a Mons. Dario Edoardo Viganò di introdurre questo libro, dopo che abbiamo trascorso alcune ore insieme a Salvatore Torre. Siamo andati a trovarlo lo scorso anno nel carcere di Saluzzo.  

Don Dario voleva conoscere quell’ergastolano, autore di due racconti che avevano ottenuto migliaia di preferenze attraverso il portale Vatican News. La sua scrittura, di certo, non corrispondeva al suo curriculum…  

Abbiamo trascorso il viaggio di ritorno per Roma, parlando di lui e degli altri “Salvatore” che don Dario ha incrociato nel suo percorso attraverso le carceri. Un percorso che ci accomuna e che ci ha fatto conoscere alcuni anni fa, quando scrisse un testo sul perdono che pubblicai in un’altra raccolta di racconti dal carcere. Alcuni detenuti che ebbero occasione di leggerlo, rimasero colpiti dalle sue parole e mi chiesero di lui.  

Da allora, don Dario è un compagno di viaggio di questa avventura letteraria che si propone di favorire un cammino virtuoso in nome della cultura della legalità. 

 

Antonella Bolelli Ferrera 

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