Il Libro

ALL’INFERNO FA FREDDO
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Link di acquisto: Amazon

“Quando sei in carcere, è come se nuotassi in una piscina. Appena esci, sembra di trovarti all’improvviso in mare aperto”. Io e il tutor rimaniamo per qualche istante in silenzio quando un detenuto, dentro a una saletta colloqui del carcere di Rebibbia, ci spiega il suo primo impatto con il mondo esterno. È una similitudine che calza a pennello. La libertà è il sogno quotidiano di ogni detenuto; il mondo fuori è una delle più recondite paure. Perché spesso nemmeno lo riconosci più, e non basta averlo osservato attraverso la televisione. Così, il primo attacco di panico della sua vita, Cosimo, detenuto di lungo corso, lo ha vissuto dentro la metropolitana di Roma. Quel mare aperto e agitato che gli ha fatto paura. Se è vero che anche i luoghi hanno un’anima, il carcere è di certo saturo di umanità, ereditata da tutti quelli che vi hanno vissuto. Ognuno con la sua storia. Dalle impronte di scarpe sul muro di una cella si può indovinare la rabbia di chi lo ha scalciato, quasi a voler cercare di abbattere quella barriera invalicabile. Dalle scritte, immaginare gli amori perduti, oppure i giorni che passano, sempre uguali, come le piccole croci in fila, una accanto all’altra. Sebastiano ha imparato a muoversi nel piccolo spazio a disposizione seguendo un rituale studiato nel rispetto di chi divide la cella con lui: “Poco più di 6 metri quadri che bisogna gestire lavorando soprattutto nell’ombra, in qualche caso scomparendo”. C’è chi non rinuncia alla propria passione per la cucina, regalando un tocco di allegria e di buona tavola ai compagni, anche se “riuscire a fare una parmigiana, utilizzando uno sgabello come forno, non è cosa da tutti”. I pacchetti vuoti delle sigarette possono servire invece a costruire mensole e cestini portatutto, un lontano ricordo delle piccole comodità di casa. Colpisce la capacità di adattamento a condizioni di vita spesso insopportabili, anche umilianti per la persona. Alcuni racconti assomigliano alla cronaca di un corso di sopravvivenza più che a un periodo di espiazione della pena e di recupero dell’individuo. Chi resiste, chi ne esce migliore di prima, è perché ha trovato un solido appiglio cui ancorare la propria vita, che è il desiderio di conoscenza. La voglia di studiare, di leggere e poi di scrivere aiuta a guarire la mente, persino la più ostinata. Così la scrittura diventa anche strumento di contatto con il mondo esterno, un modo per mettersi a nudo. È un atto di libertà. Un’evasione che non infrange regole. Ne scaturiscono racconti che lasciano attoniti per intensità e capacità descrittive, che calano il lettore in un mondo che respinge e allo stesso tempo attrae.
Le venticinque storie di questo libro sono storie di donne e uomini, adulti e adolescenti, italiani e stranieri, che raccontano esperienze di vita distanti fra loro ma che scorrono in parallelo, perché la destinazione finale è la stessa. Il carcere. Un inferno dove fa freddo: uno spiffero dalla finestra rotta, un corpo seminudo in una cella d’isolamento, luoghi angusti in cui si gela, anche se si è in sei a respirare.
Soprattutto, è il freddo che senti dentro e che ti fa tremare l’anima. Storie off limits per il mondo fuori, storie di vite vissute sull’orlo di un precipizio da cui si è inevitabilmente caduti. Spesso sono state le esperienze dell’infanzia a tracciare un destino: l’iniziazione alla criminalità organizzata, gli abusi sessuali e le botte di una madre, l’obbligo di uccidere quando sei stato chiamato alla guerra, sia essa contro un clan rivale oppure contro i ribelli del Darfour. C’è la violenza sulle donne il cui “corpo palpato, lisciato e usato come acqua, farina e sale nelle mani della cattiva massaia riduce l’anima in brandelli”, ma anche la totale indifferenza alla fine di una vita. “Prostituta nigeriana si suicida in carcere. Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità”. L’idea della morte per “andarsene privandosi di quell’aria malsana che avvelena l’esistenza”, affiora e svanisce, riaffiora e si concretizza: “Dispose lo sgabello, vi salì sopra, si assicurò il cappio intorno al collo…”. Chi è arrivato da lontano, dove la casa in cui viveva era peggiore del carcere, concentra il proprio racconto sul prima, sul viaggio che, a chi legge, sembra di rivivere assieme al protagonista: la traversata dalla Libia a Lampedusa su un gommone sgangherato, in una notte senza luna. All’improvviso, in mezzo al mare, il motore si spense e fra i componenti il carico umano che stava faticosamente trasportando, calò un silenzio irreale. Storie di carcere, di com’era ieri e di com’è oggi. È aspro il ricordo dell’Asinara e di chi è stato umiliato in massima sicurezza. Di chi, “fine pena mai”, non varcherà quel muro di cinta. Alcuni racconti spiccano per qualità letteraria giocando su scambi di ruolo – il detenuto indossa improvvisamente i panni di un poliziotto penitenziario e il poliziotto si ritrova detenuto –, avvincenti storie di vendetta, e persino una nevicata che non ti aspetti. Narrativa pura.
Non c’è autocommiserazione in questi scritti. Non si avverte la ricerca di una giustificazione ai propri errori, a volte gravissimi. Basta leggere alcune affermazioni, nette, asciutte, che non lasciano adito a dubbi: “Sono un delinquente. Condannato, definitivo”. “Mi è parso di essere sempre stata accompagnata da un senso d’inadeguatezza, quasi di colpa”. “Nacque in me la curiosità di giocare a guardie e ladri, ma per davvero”.
“Avevo solo 14 anni, non avevo più limiti”. Quando poi è un adolescente che scrive “Da circa tre anni faccio parte del gruppo di fuoco, che ha il compito di difendere il territorio e chi conta nel clan”, oppure “Se proprio devo morire, voglio farlo da leone”, convinto che sia eroica la propria fine durante un conflitto a fuoco, sorge naturale domandarsi se quel ragazzino avrà mai un futuro migliore. Un’infanzia violata, che, anziché sui banchi di scuola, ti conduce diritto nell’abisso, traccia segni indelebili, tatuaggi nell’anima che si mostrano anche attraverso i racconti degli adulti.
Ma la mente, così come il corpo, è capace (non sempre) di trovare nuova energia. Più semplicemente, affiora la voglia di vivere. Ed ecco che Francesco, quando sembra giunto al capolinea, si risolleva e sogna “di piangere e di sorridere perché è affamato di vita, anche se fa male da morire”. E c’è persino chi, con un totale di anni a doppio zero da scontare, riesce a ritrovare l’allegria perché, dice “In fondo il tempo siamo noi”.
Hanno introdotto i venticinque racconti dal carcere, altrettanti tutor – scrittori, artisti e giornalisti – che si sono calati nella storia loro affidata, nella vita, o stralci di vita, che ogni autrice e autore ha voluto narrare, svelare. Ne sono scaturiti binomi perfetti fra persone distanti ma in fondo vicine, perché unite da quel filo invisibile che si chiama scrittura.
Il privilegio di entrare in contatto con tutte le storie rappresenta per me, ogni volta, un’esperienza umana irripetibile, che apre nuovi interrogativi e suggerisce risposte inedite. Durante questo percorso, iniziato diversi anni fa, è come se avessi scomposto un puzzle e stessi rimettendo insieme i tasselli, ma l’immagine che si sta delineando è diversa. Oppure sono i miei occhi che ora la vedono così. Il faccia a faccia col male innesca una metamorfosi dalla quale non si torna più indietro. Dalla quale non voglio più tornare indietro.

Antonella Bolelli Ferrera

ALL’INFERNO FA FREDDO
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

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“Quando sei in carcere, è come se nuotassi in una piscina. Appena esci, sembra di trovarti all’improvviso in mare aperto”. Io e il tutor rimaniamo per qualche istante in silenzio quando un detenuto, dentro a una saletta colloqui del carcere di Rebibbia, ci spiega il suo primo impatto con il mondo esterno. È una similitudine che calza a pennello. La libertà è il sogno quotidiano di ogni detenuto; il mondo fuori è una delle più recondite paure. Perché spesso nemmeno lo riconosci più, e non basta averlo osservato attraverso la televisione. Così, il primo attacco di panico della sua vita, Cosimo, detenuto di lungo corso, lo ha vissuto dentro la metropolitana di Roma. Quel mare aperto e agitato che gli ha fatto paura. Se è vero che anche i luoghi hanno un’anima, il carcere è di certo saturo di umanità, ereditata da tutti quelli che vi hanno vissuto. Ognuno con la sua storia. Dalle impronte di scarpe sul muro di una cella si può indovinare la rabbia di chi lo ha scalciato, quasi a voler cercare di abbattere quella barriera invalicabile. Dalle scritte, immaginare gli amori perduti, oppure i giorni che passano, sempre uguali, come le piccole croci in fila, una accanto all’altra. Sebastiano ha imparato a muoversi nel piccolo spazio a disposizione seguendo un rituale studiato nel rispetto di chi divide la cella con lui: “Poco più di 6 metri quadri che bisogna gestire lavorando soprattutto nell’ombra, in qualche caso scomparendo”. C’è chi non rinuncia alla propria passione per la cucina, regalando un tocco di allegria e di buona tavola ai compagni, anche se “riuscire a fare una parmigiana, utilizzando uno sgabello come forno, non è cosa da tutti”. I pacchetti vuoti delle sigarette possono servire invece a costruire mensole e cestini portatutto, un lontano ricordo delle piccole comodità di casa. Colpisce la capacità di adattamento a condizioni di vita spesso insopportabili, anche umilianti per la persona. Alcuni racconti assomigliano alla cronaca di un corso di sopravvivenza più che a un periodo di espiazione della pena e di recupero dell’individuo. Chi resiste, chi ne esce migliore di prima, è perché ha trovato un solido appiglio cui ancorare la propria vita, che è il desiderio di conoscenza. La voglia di studiare, di leggere e poi di scrivere aiuta a guarire la mente, persino la più ostinata. Così la scrittura diventa anche strumento di contatto con il mondo esterno, un modo per mettersi a nudo. È un atto di libertà. Un’evasione che non infrange regole. Ne scaturiscono racconti che lasciano attoniti per intensità e capacità descrittive, che calano il lettore in un mondo che respinge e allo stesso tempo attrae.
Le venticinque storie di questo libro sono storie di donne e uomini, adulti e adolescenti, italiani e stranieri, che raccontano esperienze di vita distanti fra loro ma che scorrono in parallelo, perché la destinazione finale è la stessa. Il carcere. Un inferno dove fa freddo: uno spiffero dalla finestra rotta, un corpo seminudo in una cella d’isolamento, luoghi angusti in cui si gela, anche se si è in sei a respirare.
Soprattutto, è il freddo che senti dentro e che ti fa tremare l’anima. Storie off limits per il mondo fuori, storie di vite vissute sull’orlo di un precipizio da cui si è inevitabilmente caduti. Spesso sono state le esperienze dell’infanzia a tracciare un destino: l’iniziazione alla criminalità organizzata, gli abusi sessuali e le botte di una madre, l’obbligo di uccidere quando sei stato chiamato alla guerra, sia essa contro un clan rivale oppure contro i ribelli del Darfour. C’è la violenza sulle donne il cui “corpo palpato, lisciato e usato come acqua, farina e sale nelle mani della cattiva massaia riduce l’anima in brandelli”, ma anche la totale indifferenza alla fine di una vita. “Prostituta nigeriana si suicida in carcere. Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità”. L’idea della morte per “andarsene privandosi di quell’aria malsana che avvelena l’esistenza”, affiora e svanisce, riaffiora e si concretizza: “Dispose lo sgabello, vi salì sopra, si assicurò il cappio intorno al collo…”. Chi è arrivato da lontano, dove la casa in cui viveva era peggiore del carcere, concentra il proprio racconto sul prima, sul viaggio che, a chi legge, sembra di rivivere assieme al protagonista: la traversata dalla Libia a Lampedusa su un gommone sgangherato, in una notte senza luna. All’improvviso, in mezzo al mare, il motore si spense e fra i componenti il carico umano che stava faticosamente trasportando, calò un silenzio irreale. Storie di carcere, di com’era ieri e di com’è oggi. È aspro il ricordo dell’Asinara e di chi è stato umiliato in massima sicurezza. Di chi, “fine pena mai”, non varcherà quel muro di cinta. Alcuni racconti spiccano per qualità letteraria giocando su scambi di ruolo – il detenuto indossa improvvisamente i panni di un poliziotto penitenziario e il poliziotto si ritrova detenuto –, avvincenti storie di vendetta, e persino una nevicata che non ti aspetti. Narrativa pura.
Non c’è autocommiserazione in questi scritti. Non si avverte la ricerca di una giustificazione ai propri errori, a volte gravissimi. Basta leggere alcune affermazioni, nette, asciutte, che non lasciano adito a dubbi: “Sono un delinquente. Condannato, definitivo”. “Mi è parso di essere sempre stata accompagnata da un senso d’inadeguatezza, quasi di colpa”. “Nacque in me la curiosità di giocare a guardie e ladri, ma per davvero”.
“Avevo solo 14 anni, non avevo più limiti”. Quando poi è un adolescente che scrive “Da circa tre anni faccio parte del gruppo di fuoco, che ha il compito di difendere il territorio e chi conta nel clan”, oppure “Se proprio devo morire, voglio farlo da leone”, convinto che sia eroica la propria fine durante un conflitto a fuoco, sorge naturale domandarsi se quel ragazzino avrà mai un futuro migliore. Un’infanzia violata, che, anziché sui banchi di scuola, ti conduce diritto nell’abisso, traccia segni indelebili, tatuaggi nell’anima che si mostrano anche attraverso i racconti degli adulti.
Ma la mente, così come il corpo, è capace (non sempre) di trovare nuova energia. Più semplicemente, affiora la voglia di vivere. Ed ecco che Francesco, quando sembra giunto al capolinea, si risolleva e sogna “di piangere e di sorridere perché è affamato di vita, anche se fa male da morire”. E c’è persino chi, con un totale di anni a doppio zero da scontare, riesce a ritrovare l’allegria perché, dice “In fondo il tempo siamo noi”.
Hanno introdotto i venticinque racconti dal carcere, altrettanti tutor – scrittori, artisti e giornalisti – che si sono calati nella storia loro affidata, nella vita, o stralci di vita, che ogni autrice e autore ha voluto narrare, svelare. Ne sono scaturiti binomi perfetti fra persone distanti ma in fondo vicine, perché unite da quel filo invisibile che si chiama scrittura.
Il privilegio di entrare in contatto con tutte le storie rappresenta per me, ogni volta, un’esperienza umana irripetibile, che apre nuovi interrogativi e suggerisce risposte inedite. Durante questo percorso, iniziato diversi anni fa, è come se avessi scomposto un puzzle e stessi rimettendo insieme i tasselli, ma l’immagine che si sta delineando è diversa. Oppure sono i miei occhi che ora la vedono così. Il faccia a faccia col male innesca una metamorfosi dalla quale non si torna più indietro. Dalla quale non voglio più tornare indietro.

Antonella Bolelli Ferrera

I Vincitori

1° classificato
sezione “Adulti”

Nelle scarpe dell’altro
di Ivan Gallo

(…)
«CHIU-SU-RA!».
Il collega, distolto dalla lettura del quotidiano, guardò l’orologio: «Ma non è presto? Mancano quasi 10 minuti!»
«Ormai l’ho chiamata, dobbiamo chiudere le celle», rispose Francesco, spiccio.
«La chiusura, France’», gli aveva detto un collega quando ancora era alle prime armi, «è il momento peggiore di un Poliziotto Penitenziario. Essere arbitro della libertà di un altro richiede maggiori responsabilità che non essere padrone della sua vita.»
(…)
La chiusura serale era il momento in cui finalmente ci si poteva rilassare, senza che nessuno venisse a farti visita per raccontarti le proprie avventure di malavita: erano sempre le stesse, riesumate dal cestino dei ricordi innumerevoli volte.
«Stasera lusso», disse il compagno di cella a Rizzo indicando i fornelletti, «ho preparato un sacco di cose buone… a patto che non mi stressi con la tua dieta senza carboidrati».
Dopo cena Rizzo lavò i piatti, diede una pulita al pavimento e poi si infilò sotto la doccia, come ogni sera.
(…)
In quella notte di magia Rizzo e Francesco, il ‘ladro’ e la ‘guardia’, rivolsero al cielo la medesima supplica: entrambi pregarono di poter cambiare vita.
(…)
Rizzo si stiracchiò al risveglio. La cella era scomparsa.
Saltò giù dal letto posando i piedi su un soffice tappeto. Che cosa stava succedendo ? Dov’era finito?
Rizzo era una persona razionale. «Si tratta di un esperimento!», si disse. «Una specie di reality: prendono un detenuto e lo sbattono chissà dove a sua insaputa, per vederne le reazioni.»
Rizzo decise di stare al gioco.
(…)

Motivazioni

Idea narrativa originale: un detenuto e un agente penitenziario si avvicendano in un gioco delle parti e provano quanto, immaginazione e sentimento, possano per una più estesa conoscenza e comprensione dell’altro. La scrittura chiara ed efficace di Ivan Gallo coinvolge il lettore in una situazione paradossale e claustrofobica e lo conduce a un epilogo inaspettato.

1° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Double face
di Unknown

La prima volta è esperienza, la seconda è vita.
E’ fondamentale cambiare carte per vincere due volte allo stesso gioco.
Bisogna avere un altro sguardo per amare ogni giorno la stessa persona.
E’ essenziale cambiare vita, per vivere a pieno la stessa.
(…)
Nel mio quartiere è appena mezzanotte. Sono in casa e, sdraiato nel letto della mia stanza, guardo la tv. E’ ancora presto per certe cose, c’è uno strano silenzio in strada e di solito questo non promette nulla di buono. Si fa l’una e mi metto a dormire. Ora non passano ambulanze, passano pattuglie, qualche volta elicotteri, la “fiat panda” è una Bmw M3 che fugge, o più semplicemente è una di quelle tantissime macchine che arrivano ogni notte nel mio quartiere. Alle quattro e trenta non abbaia nessun cane dell’idraulico, è solo l’ennesimo drogato o alcolizzato, che dà sfogo alla sua rabbia.
(…)
Il centro commerciale è pura verità amplificata.
Il centro commerciale è un luogo di svago molto comune per i ragazzi. Qualcuno scappa di casa per trasferirsi lì. Non escludo che io sia uno di essi.
Proprio nel centro commerciale ho commesso il mio reato più grave. Sono passati tre anni, forse anche di più. Sul reato stesso, questo è quello che ho capito e quello che rivolgo, che ho già rivolto, alle vittime: a volte le menti esplodono, ovviamente non ragionano, basta un piccolo stimolo incosciente per dargli vita e, a quel punto, non conta più nulla, né chi è di fronte, né lo stesso corpo che le “comanda”.
(…)
Il CPA (Come Posso Arrivo) è il centro di prima accoglienza. Sono arrivato il 12 Marzo 2012, alle 6.30 del mattino, accompagnato dal “napoletano”, ero davvero curioso di vedere la mia nuova stanza. Ci hanno aperto subito, senza far caso all’orario. Entro, mi salutano tutti con un bello sguardo: ”Aaahh (sospiro)” mi sento già a mio agio. Mi fanno posare tutti gli oggetti, li chiudono a chiave in un armadietto.
(…)
Una volta, quando ero solo un piccolo uomo, abitavo nella casa all’ultimo piano di un palazzo. Un palazzo più alto di quanto un semplice occhio possa vedere, un palazzo lontano, lontano da qualsiasi cosa. Quando urlavo nessuno mi sentiva, quel palazzo non esisteva, solo in pochi fingevano di vederlo davvero. Gli abitanti erano sempre gli stessi e, sono sicuro, non cambieranno mai.
(…)

Motivazioni

Un’adolescenza metropolitana raccontata con straordinaria ironia e sapienza antropologica. Unknown pone il protagonista in osservazione e in ascolto di una città che brulica di storie. Autore già pienamente scrittore, e di notevole talento.

2° classificato
sezione “Adulti”

Giulia
di Stefano Lemma

(…)
Tutti i giorni incontravo i ragazzi che andavano al liceo, incontrai Giulia, dopo molti giorni e tanti sguardi, scendendo entrambi alla stessa fermata a Corso Vittorio davanti a Piazza della Cancelleria. Mi chiese: “Che scuola fai?”. Mi vergognai, per un istante avrei voluto mentire, raccontai la verità:
“Ho lasciato la scuola dopo la quinta elementare, lavoro qui a Campo de Fiori ”
“Sembri uno studente, lo sai?”
Cominciai a frequentare Giulia, i suoi amici di sinistra, le cose che loro volevano cambiare, la teoria di Machiavelli che il fine giustifica i mezzi.
(…)
Mio padre non si riprese più.
La mia vita cambiò in fretta, c’erano dei problemi che andavano risolti subito, l’affitto da pagare, la spesa da fare, le medicine da comprare.
I mesi passarono presto, l’estate scomparve del tutto.
Mi allontanai da Giulia.
Lasciai l’uguaglianza, la libertà, gli amici alle loro idee.
(…)
Avevo messo un po’ di soldi da parte, Amsterdam era la mia curiosità, un inno alla libertà.
Avevo un documento d’identità falso; volevo guardare il mondo con gli occhi di un altro. Non dimenticai il numero di telefono di Giulia, lo portai con me.
(…)
Andai a telefonare a Giulia, volevo sentirla, ascoltare la sua voce.
“Ciao, sono io”.
“Che fine hai fatto? …”.
(…)
Poi mi disse che sarebbe andata in Francia, con Fabrizio, il suo ragazzo, che frequentava il quarto anno di Scienze Politiche alla Sapienza.
Fu un bel colpo per me, non lo feci notare.
“Sai, lui ha avuto dei problemi per gli scontri di Valle Giulia, è saltata fuori una pistola e pensano che fosse lui che la impugnava, qualcuno ha fatto il doppio gioco, così lo cercano”.
“E tu che c’entri in questa storia?”.
“Sono andati anche a casa mia a cercarlo, hanno chiesto di me a mia madre; sanno che sono la sua compagna”.
(…)

2° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Vivo o morto
di Giulio

In una notte scura, in cui si vedevano solo le stelle, io e altre persone che non avevo mai conosciuto, abbiamo iniziato il nostro viaggio.
Io ero il più piccolo di tutti, avevo 14 anni, ero accompagnato da mio zio. Siamo entrati nell’acqua, che mi arrivava fino al collo. Abbiamo cominciato a salire sulla barca a uno a uno, c’era troppo freddo, mi si sono ghiacciati i piedi, camminavo e neanche li sentivo.
(…)
Ho lasciato tutti, per non essere più lasciato da qualcuno.
Lentamente ci siamo avvicinati alla terraferma. Mi sono messo di fianco al capitano e ho visto, di lontano, la Guardia Costiera che stava arrivando verso di noi. Era l’aiuto che aspettavamo. “Ce l’abbiamo fatta!”, ero felice, anche perché il mare aveva cominciato ad agitarsi e la nostra barca si muoveva pericolosamente a destra e a sinistra. Le altre persone si sono messe a gridare “Aiuto! Aiuto!”. Era l’unica parola che sapevano dire.
(…)
Dopo molte ore siamo entrati in un centro, dove c’erano tanti altri ragazzi che avevano soldi, sigarette e cibo. Un sogno. Io e mio cugino mangiavamo sempre pasta e pane, senza dimenticare di ringraziare Dio, per questo. Purtroppo, però, quel centro diventò presto un inferno, chi si tagliava, chi litigava… Alcuni di noi furono trasferiti. Ricordo che durante il tragitto avevo paura, sentivo dei rumori strani in testa.
(…)

Motivazioni

Con stile spontaneo ed efficace l’autore racconta cosa significa fuggire dall’Africa su un barcone. “Ho lasciato tutti per non essere più lasciato da qualcuno”. Ma l’Italia tanto sognata si scopre soltanto quando Giulio trova qualcuno che lo ascolta. E il suo viaggio puo’ veramente cominciare.

3° classificato
sezione “Adulti” 

Diario di una lunga morte
di Biagio Crisafulli

(…)
Di solito ero da solo in cella, ma da pochi giorni c’era anche il mio vecchio amico Domenico, alias Mimmo mani di velluto. Ci eravamo conosciuti casualmente al momento dell’arresto, anche lui si trovava in stato di fermo nella caserma dei carabinieri di via Moscova, a Milano, da cui ci condussero al carcere. Sul furgone che ci trasportava a San Vittore scambiammo qualche parola e, nonostante il mio pessimo umore, riuscì a farmi sorridere con un paio di irriverenti battute sugli sbirri. Così, a pelle, mi piacque immediatamente e una volta giunti in matricola domandai all’agente se era possibile metterci nella stessa cella. Fummo assegnati al pianterreno del quinto raggio, cella numero 107.
(…)
Con il passare degli anni rimasi solo. Mio padre morì il giorno dopo il giudizio della Corte d’Assise che mi condannò all’ergastolo. Mia madre lo seguì l’anno dopo, incapace di sopravvivere in quella casa, dove ogni oggetto le ricordava i suoi uomini, che tanto aveva amato. Nel 1986, dopo che la Corte di Cassazione mise la pietra tombale sulla mia esistenza – FINE PENA, MAI – persi anche mia moglie Maria e i miei due figli, Andrea e Monica.
(…)
A darmi la forza dì continuare a vivere, fu l’amicizia di Mimmo che divenne il mio unico familiare; quando era fuori mi scriveva due volte la settimana, raccontandomi le sue vicissitudini e accudendomi con fraterna attenzione. Ogni volta che ero trasferito in una nuova prigione, anche lui si spostava di città e cominciava a “lavorare” in quella zona, in modo che se veniva preso, arrivava dove mi trovavo io.
(…)
Il giorno precedente la sua scarcerazione, con una scusa lo convinsi ad andare all’aria da solo, poi cominciai a preparami.

Motivazioni

Storia di un’amicizia vissuta nel chiuso di un carcere, raccontata con la tenerezza e la compassione di chi crede che quel sentimento e quella vicinanza possano più di ogni pena e di ogni errore. Merito dell’autore è quello di sondare la psicologia dei protagonisti rendendoli da subito familiari al lettore.

3° classificato sezione
“Minori e giovani adulti”

La mia strada
di Coccinella

Il mio nome è Lian. Avevo solo quattordici anni quando la mia vita cambiò in un attimo. Tutto cominciò quando, un giorno, vidi mio padre che stava bastonando mia madre. Si accorse di me, mi si buttò addosso e cominciò a picchiare anche me.
A un tratto vidi la porta a terra, entrarono due poliziotti e fermarono quel mostro. Io mi rialzai e corsi verso mia madre, la chiamavo, ma lei non rispondeva.
(…)
Dopo il funerale non andai più a scuola, non parlavo con nessuno, era come se ci fosse il vuoto intorno a me. Stavo a casa di mia nonna, che in quel momento era la cosa più importante della mia vita.
La mia zona non era un bel posto, era un quartiere, diciamo, malfamato. Di pomeriggio uscivo da solo e non davo confidenza a nessuno, fin quando si avvicinò Brian, un ragazzo di qualche anno più grande di me; era la prima volta che qualcuno mi notava.
(…)
In macchina, i ragazzi si misero a fumare una canna; Brian me la mise in bocca: «Fuma». Io volevo provare, e fumai. Attaccò a parlare Salvo, che era il più grande, e ci portò in un posto. Parlava di fare una rapina ed io, che già non stavo più capendo nulla, dissi: «Cosa? ‘Na rapina?». E Brian: «Sì, ‘na rapina; e sennò, ti pare come ce l’avevamo la macchina e i soldi?». Ero muto, non sapevo cosa dire. Fu Salvo a parlare nuovamente: «È perché non lo hai provato mai, ma poi ti viene di farle sempre».
(…)
Mi portarono nel carcere minorile. Uno shock. Mi sono trovato chiuso dentro senza sapere per quanto tempo sarei rimasto lì.
(…)

Motivazioni

L’autore racconta con lucida consapevolezza il suo percorso, a partire da una famiglia distrutta. Riesce a definire con pochi tratti i personaggi, dando forza alle scene più drammatiche. E’ il racconto della sua battaglia, il suo incontro di boxe con la vita.

Menzione speciale

La lunga strada verso casa
di Michele Maggio

(…)
Nonostante gli anni, l’uomo si era tenuto in forma: alto e muscoloso, dimostrava meno della sua effettiva età ed era ancora bello. Dannatamente bello.
(…)
Arrivò il momento di andare.
All’uscita del carcere una guardia piuttosto giovane, forse per darsi un tono con i colleghi lo salutò ironicamente: “Ehi, Dillinger, arrivederci a presto, eh!”
I loro sguardi s’incrociarono, il poliziotto si irrigidì e deglutì vistosamente finché un agente più anziano e più furbo lo trascinò via per un braccio.
(…)
IL RAGAZZO
Il Toro aveva quasi finito di espletare i suoi bisogni quando fu sorpreso alle spalle da un rumore fin troppo famigliare. Era il click del cane di una Smith & Wesson 38 che veniva tirato indietro e armava il revolver pronto a sparare.
“Umf” bofonchiò serio “solo tu potevi sorprendermi alle spalle in questo modo.” E aveva ragione.
“Hai quel cazzo di dono. Non ti fai sentire. Come i topi. Scorrazzi qua e là senza farti sentire.”
Il ragazzo se ne stava lì, in silenzio, ben ritto sulle gambe con il braccio teso, la mano ferma e una sicurezza che non erano tipici di un quattordicenne, nemmeno per gli standard della città.
“Sei venuto a vendicare la mammina, stronzetto? Lo sai che è stato un incidente, vero?” Il Toro avanzò di un passo verso il ragazzo.
(…)
IL VECCHIO
Il vecchio era come al solito all’interno della sua villa-fortezza.
“Il Toro è morto, Secco. L’Ebreo o il Turco?” ricominciò il vecchio.
L’Ebreo e il Turco erano gli altri pretendenti al trono della città. La morte del Toro poteva essere una dichiarazione di guerra da parte di uno dei due. O di entrambi.
“Né uno, né l’altro qualcosa di personale?”
“Come fai a dirlo?”
“Più di una sensazione, diciamo”
(…)

Motivazioni

Interessante struttura da racconto d’azione americano . L’autore maneggia con abilità un intreccio elaborato e una descrizione vivida dei personaggi. Potrebbe essere in nuce la sceneggiatura di un film.

Menzione speciale

Fourteen
di Francesco Fusano

(…)
Ho infranto le regole. Mario, suo padre e Peppe sono pregiudicati ed io sono in affidamento. Non dovrei avere contatti con loro, è scritto nelle prescrizioni ma sono i miei amici. Sono veri, non sono virtuali e gli voglio bene.
(…)
Lui e Peppe cominciano a scartare le siringhe e a preparare la dose.
Sta succedendo. È tutto reale. Assisto alla scena invece dovrei alzarmi e scappare via, lontano. Resto. Vedo le siringhe. L’ago scompare nella fiala in un liquido che sembra coca cola. Tra le milioni di cose possibili che stanno nel grembo dell’infinito la mia mano ha estratto proprio questa.
“Scostati” dice Peppe arrotondandosi la manica della camicia fino al gomito.
“Voglio fare anch’io” gli dico.
In quel tardo pomeriggio di febbraio ho dato un colpo di siringa agli sforzi di anni. Sono compromesso.
(…)
Quattordici sono gli anni trascorsi da quel maledettissimo novembre in cui seppellii Walter. Così una sera, come se a distanza di anni avessi bisogno di una conferma, provo a digitare su Facebook il suo nome e cognome.
Quelle orecchie le riconoscerei tra mille, tra un miliardo. È lì, è lui. Incredulo osservo la foto e penso. Piango e penso. Piango e la ferma cui ho costretto i miei occhi è dischiusa e la mente cerca a stento di essere ragionevole.
(…)
L’unica persona che posso giurare di aver amato e che credo morta, putrefatta e decomposta sotto un cumulo di terra, è viva!
(…)
Il milione di piccoli pezzi è divenuto un miliardo di schegge. Alla fine cedo. Accetto la proposta di rapinare una banca. Quale stupida teoria ho elaborato per cui sono certo dell’impunità?
(…)
Sono sepolto in questa cella, tra il letto e lo sgabello. Fuori 50 metri di corridoio e altre 24 celle: questo è il non mondo in cui io non sono. Non voglio, questa è la verità.
(…)

Motivazioni

Menzione per lo stile. Racconto dal ritmo incalzante, si distingue per l’uso di un linguaggio davvero originale ed efficace. L’autore usa con intelligenza le parole e ne rispetta il significato.

Menzione speciale

Quei soggiorni alla cella 9
di Salvatore Torre

Quella notte fui svegliato da un rumore insolito; un rumore cadenzato, strisciante, che pareva venire da lontano per farsi, via via, più prossimo e sinistro.
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“Fuori dalla cella!” mi urlò una guardia strattonandomi per un braccio sino al corridoio.
Brutti bastardi, pensai, mentre a testa bassa gli passavo in mezzo, e il “plac-plac” dei manganelli suonava anche a me.
Una cinquantina di corpi lamentosi e doloranti, perlopiù con il pigiama e le ciabatte o anche scalzi, si trovarono nel cortile. Non dicevano una parola, soltanto mormoravano “la squadretta, è arrivata la squadretta”.
(…)
Il comandante della squadretta si alzò e fece il giro della scrivania.
“E così hai detto pezzo di merda…” incominciò, fissandomi negli occhi.
Risposi di no: “Non ho detto questo ma vaffanculo” precisai.
“Ah.. hai detto vaffanculo ” esclamò lui torcendo lievemente il collo di lato.
(…)
Fui chiuso nella cella 18 dirimpetto alla cella 9. Era un antro buio, senza vetri alle finestre, senz’acqua potabile, senza nulla eccetto un bagno alla turca pieno di escrementi.
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L’Asinara ci accolse mostrandoci il volto scorbutico e severo dei burocrati dell’ufficio matricola, un poco scocciati per essere costretti a eseguire per ognuno di noi la procedura di schedazione: occhi, capelli, altezza, impronte digitali…
La chiave aprì le nostre celle pressappoco alle 7:30. “In piedi, forza!”. Una delle cinque guardie entrate nella nostra di cella, strattonò per la maglia il più anziano dei miei cellanti e gli urlò in faccia “Ti spacco il culo se ti ripesco a letto!”. Poi si voltò a guardare verso di noi. Io ebbi l’impulso di dire qualcosa, ma l’altro detenuto anziano, mi fermò lanciandomi un’occhiata ammonitrice.
(…)
Una mattina la morte si materializzò davanti ai miei occhi: uno dei miei compagni di cella “appeso” alla finestra. Lui sì, aveva legato una corda al collo della sua vita e adesso penzolava inerme davanti a me. Non mi guardava nemmeno, con quegli occhi tirati su, contro il soffitto. Né veniva un solo fiato da quella bocca sgorbiata dall’asfissia.

Motivazioni

Interessante struttura da racconto d’azione americano . L’autore maneggia con abilità un intreccio elaborato e una descrizione vivida dei personaggi. Potrebbe essere in nuce la sceneggiatura di un film.

Autori finalisti e Tutor

I finalisti della sezione Adulti

gli autorii tutor
HASAN ADAMMaurizio De Giovanni
NAZARENO CAPORALIFiamma Satta
GIAMPAOLO CONTINIAntonio Pascale
BIAGIO CRISAFULLILuca Argentero
GIUSEPPE FONTANAFederico Moccia
FRANCESCO FUSANOGloria Satta
IVAN GALLOMarco Buticchi
STEFANO LEMMAAndrea Purgatori
MICHELE MAGGIOMassimo Lugli
FEDERICO MARSIPino Corrias
MICA DOLICCinzia Tani
SAMIR MISSORIEmilia Costantini
FRANCO PEZZINOGiancarlo De Cataldo
SEBASTIANO PRINORoberto Riccardi
GIUSEPPE RAMPELLOCarlo Maria Grillo
COSIMO REGAAndrea Vianello
ALESSANDRA ROSASilvana Mazzocchi
MILORAD STIJEPOVICMarco Franzelli
SALVATORE TORRESalvo Sottile
SALVATORE VENTURAErri De Luca

I finalisti della sezione “Minori e giovani adulti”

gli autorii tutor
COCCINELLAPaolo Di Paolo
AMABILE RAFFAELEWalter Veltroni
FABRIZIOLuca Zingaretti
GIULIOEraldo Affinati
UNKNOWNAlessandro D’Alatri

La Giuria

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Riconoscimenti

Al Premio Letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” 2015
è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica

PATROCINI: Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Rai – Radio televisione italiana.

Il Forum del Terzo Settore del Lazio ha conferito il Premio Formica d’oro 2016 all’Associazione InVerso Onlus per il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” perché “con la partecipazione di noti scrittori, stimola i detenuti alla scrittura e facilita il reinserimento dei detenuti minori”

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Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio