Il Libro

IL GIARDINO DI CEMENTO ARMATO
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Link di acquisto: Amazon

Carcere, devianza, emarginazione, abbandono. Sono comuni denominatori, ma le ventisei storie contenute in questo libro sono così distanti fra loro da condurre il lettore nel labirinto del mondo carcerario attraverso percorsi sempre diversi.
Racconti shock. La profuga siriana che, appena adolescente, diviene merce di vendita per le milizie, i soldati e i trafficanti di esseri umani. “Eravamo la moneta di scambio tra i ribelli e l’esercito del regime”. La mamma che insegna a suo figlio come confezionare le dosi di droga. E il bambino scrive: “La mattina dopo, preparo lo zaino per andare a scuola, come facevo prima. Adesso, però, nell’astuccio ho infilato venti stecche che devo piazzare”. La sedicenne che uccide la propria sorella gemella “Lei aprì gli occhi, terrorizzata alla vista del mio sguardo infuocato di odio, le tappai la bocca e la colpii al cuore, ripetutamente”. L’ascesa gerarchica di un killer mafioso in un’escalation di violenza e morte che lo spinge alla fredda esecuzione del suo migliore amico “…quello con cui siamo cresciuti. Un giorno lo invitai a prendere un caffè e poi a fare un giro in auto”. La scoperta del suicidio di un compagno di cella. “Si voltò, gli occhi semichiusi, e si trovò davanti al viso le scarpe del Topo che facevano avanti e indietro.
A volte con la crudezza di un articolo di cronaca, altre con i ritmi incalzanti del romanzo di avventura, a volte “favole di assediati dentro a una fortezza” (scrive Erri De Luca), gli autori hanno scelto stili diversi per raccontare, ma ciò che si percepisce è la volontà di svelarsi. E si rimane irretiti nella lettura, alla scoperta di esistenze così (apparentemente) distanti dalle nostre, catapultati in un mondo che respinge e incuriosisce, turba ed emoziona, come spesso accade al cospetto di esistenze proiettate oltre il limite. In questo caso, della legalità. E ci sentiamo inaspettatamente più vicini a loro, forse perché “La scrittura – scrive Lattanzi, una degli scrittori-tutor – è un ponte capace di unire una storia piccola, dettagliata, distante anni luce da noi e dal nostro vissuto per tempi, luoghi, vicende, alla nostra piccola, dettagliata storia personale.
Storie che hanno preceduto l’ingresso in carcere ma che il carcere, anche, lo raccontano. E ci sono tanti modi per farti piombare fra le sue mura grigie e sentire la morsa soffocante degli spazi chiusi o il senso di solitudine. Solitudine dell’anima – i corpi sono spesso costretti a vivere ammassati – a volte inseguita, per estraniarsi da una realtà che si sarà costretti a vivere per molti anni o per il resto della vita, ma che affina i sensi e la percezione degli altri. “La restrizione in carcere gli ha donato uno sguardo che va oltre le carni” scrive Lucarelli di Rega, che del “ragazzo col cappotto” riesce a cogliere il segreto: “Pareva posseduto da forze malefiche… Presi coraggio per domandargli se soffrisse di qualcosa. Sono schizofrenico, come mia madre, rispose”.
Solitudine che è anche “un limbo nel quale, presto o tardi, ti ritrovi a ragionare sulla sensatezza o meno della tua esistenza” scrive Salvatore Torre, condannato all’ergastolo, che intravede solo due possibilità di liberazione “ il suicidio o la rinuncia alla vita, che è la pazzia.
Mike”, autore di un altro racconto, ha cercato di mettere in pratica la prima soluzione “Mi procurai un sacco nero, di quelli per la spazzatura. Per averlo, diedi in cambio il dolce che ci passavano alla domenica per colazione. Tutto era deciso, avrei utilizzato la bomboletta del gas.” Mike oggi è vivo per miracolo, altri sono riusciti nel loro intento.
Francesco De Masi – “una vita da montagne russe e leggi violate” scrive Andrea Vianello – sostiene invece che ci voglia una certa fibra per resistere al carcere “d’altronde quando si sceglie la malavita, ci vuole il fisico per stare a galla.” E c’è da crederci, visti i suoi trascorsi.
Anche se la detenzione scandisce per tutti un andamento ripetitivo nelle abitudini e nelle dinamiche, ognuno la vive in modo diverso. Come inutile supplizio, ingiustizia, come vendetta della società. Oppure come luogo, anche, di ripensamento (non necessariamente di pentimento, parola bandita dentro ogni carcere). Trapela nel racconto di Stefano Lemma, senza esplicitarsi. Giancarlo De Cataldo scrive “la colpa, qui, coincide con la pena. E il condannato, questa pena, non solo la sceglie da sé, ma, come nella “Colonia Penale” di Kafka, a sé la infligge, diventando per un istante, quello supremo, giudice di se stesso”.
Francesco Fusano, in una sorta di lucida follia, si sente “disconnesso dalla società”. Comincia così il suo racconto “ERROR: Tossicodipendente, Criminale, Gay”. Preda di crolli emotivi che si alimentano nel disagio e nella devianza, l’autore riesce a chiudere con una frase di speranza “Fuori c’è un mondo sconosciuto che attende di essere visitato, e io sono una persona nuova. Ora ho un sistema operativo di ultima generazione.”. Una volta libero, per lui, non sarà così.
Sono storie che suscitano, di volta in volta, sentimenti contrastanti, mai tese a fare leva sulla pietà. E’ però innegabile che i racconti dei minori o quelli che rievocano l’infanzia di detenuti oggi adulti, siano spiazzanti.
A volte, mia madre preparava uno spinello per fumarcelo insieme. Non ho mai capito se questa fosse la dimostrazione del suo modo di volermi bene.
Mi addestrarono, a suon di botte, all’uso delle armi e delle bombe… mi dissero che quando si spara si deve ridere.”
La mamma ha cominciato a frequentare persone poco raccomandabili con cui partecipava a situazioni sessuali delle quali rendeva partecipi anche noi bambini.
Prima ancora della prima elementare, molte “ripetizioni private” m’insegnano un confuso e rabbioso dolore”.
Carlo Verdone, tutor di un giovane del circuito penale minorile, non ha dubbi: “Quale colpa ha avuto “Gabriel” nel percorrere per anni un sentiero che portava dritto al baratro? Alcuna. Altri sono stati sciagurati artefici del suo destino.
Alessandro D’Alatri parla di “una sconfitta che ci appartiene” e vede il testo di “Unknown” come un “messaggio in bottiglia” che le maree hanno restituito dopo innumerevoli tempeste. E di tempeste, questo sedicenne deve averne attraversate, per decidere di iniziare il suo racconto così: “Gli eroi non esistono, e se esistono non sono positivi, quindi seguirò quello sbagliato, finché non me ne accorgo”. Chissà se oggi qualcuno che ha intercettato in lui molte potenzialità, non gli abbia fatto cambiare idea?
Diversi interrogativi affolleranno la mente dopo la lettura di queste storie e saremo tentati di trovare da soli una risposta al “male”. Anche delle giustificazioni. Forse perché sappiamo che il lato oscuro si nasconde in ciascuno di noi, pronto a palesarsi.
Saremo tentati, al contrario, di ergerci a giudici quando il delitto ti sbatte in faccia il supplizio delle vittime (mai evocate abbastanza).
Occorre un respiro e cominciare a leggere. Senza pregiudizi.

IL GIARDINO DI CEMENTO ARMATO
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

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Carcere, devianza, emarginazione, abbandono. Sono comuni denominatori, ma le ventisei storie contenute in questo libro sono così distanti fra loro da condurre il lettore nel labirinto del mondo carcerario attraverso percorsi sempre diversi.
Racconti shock. La profuga siriana che, appena adolescente, diviene merce di vendita per le milizie, i soldati e i trafficanti di esseri umani. “Eravamo la moneta di scambio tra i ribelli e l’esercito del regime”. La mamma che insegna a suo figlio come confezionare le dosi di droga. E il bambino scrive: “La mattina dopo, preparo lo zaino per andare a scuola, come facevo prima. Adesso, però, nell’astuccio ho infilato venti stecche che devo piazzare”. La sedicenne che uccide la propria sorella gemella “Lei aprì gli occhi, terrorizzata alla vista del mio sguardo infuocato di odio, le tappai la bocca e la colpii al cuore, ripetutamente”. L’ascesa gerarchica di un killer mafioso in un’escalation di violenza e morte che lo spinge alla fredda esecuzione del suo migliore amico “…quello con cui siamo cresciuti. Un giorno lo invitai a prendere un caffè e poi a fare un giro in auto”. La scoperta del suicidio di un compagno di cella. “Si voltò, gli occhi semichiusi, e si trovò davanti al viso le scarpe del Topo che facevano avanti e indietro.
A volte con la crudezza di un articolo di cronaca, altre con i ritmi incalzanti del romanzo di avventura, a volte “favole di assediati dentro a una fortezza” (scrive Erri De Luca), gli autori hanno scelto stili diversi per raccontare, ma ciò che si percepisce è la volontà di svelarsi. E si rimane irretiti nella lettura, alla scoperta di esistenze così (apparentemente) distanti dalle nostre, catapultati in un mondo che respinge e incuriosisce, turba ed emoziona, come spesso accade al cospetto di esistenze proiettate oltre il limite. In questo caso, della legalità. E ci sentiamo inaspettatamente più vicini a loro, forse perché “La scrittura – scrive Lattanzi, una degli scrittori-tutor – è un ponte capace di unire una storia piccola, dettagliata, distante anni luce da noi e dal nostro vissuto per tempi, luoghi, vicende, alla nostra piccola, dettagliata storia personale.
Storie che hanno preceduto l’ingresso in carcere ma che il carcere, anche, lo raccontano. E ci sono tanti modi per farti piombare fra le sue mura grigie e sentire la morsa soffocante degli spazi chiusi o il senso di solitudine. Solitudine dell’anima – i corpi sono spesso costretti a vivere ammassati – a volte inseguita, per estraniarsi da una realtà che si sarà costretti a vivere per molti anni o per il resto della vita, ma che affina i sensi e la percezione degli altri. “La restrizione in carcere gli ha donato uno sguardo che va oltre le carni” scrive Lucarelli di Rega, che del “ragazzo col cappotto” riesce a cogliere il segreto: “Pareva posseduto da forze malefiche… Presi coraggio per domandargli se soffrisse di qualcosa. Sono schizofrenico, come mia madre, rispose”.
Solitudine che è anche “un limbo nel quale, presto o tardi, ti ritrovi a ragionare sulla sensatezza o meno della tua esistenza” scrive Salvatore Torre, condannato all’ergastolo, che intravede solo due possibilità di liberazione “ il suicidio o la rinuncia alla vita, che è la pazzia.
Mike”, autore di un altro racconto, ha cercato di mettere in pratica la prima soluzione “Mi procurai un sacco nero, di quelli per la spazzatura. Per averlo, diedi in cambio il dolce che ci passavano alla domenica per colazione. Tutto era deciso, avrei utilizzato la bomboletta del gas.” Mike oggi è vivo per miracolo, altri sono riusciti nel loro intento.
Francesco De Masi – “una vita da montagne russe e leggi violate” scrive Andrea Vianello – sostiene invece che ci voglia una certa fibra per resistere al carcere “d’altronde quando si sceglie la malavita, ci vuole il fisico per stare a galla.” E c’è da crederci, visti i suoi trascorsi.
Anche se la detenzione scandisce per tutti un andamento ripetitivo nelle abitudini e nelle dinamiche, ognuno la vive in modo diverso. Come inutile supplizio, ingiustizia, come vendetta della società. Oppure come luogo, anche, di ripensamento (non necessariamente di pentimento, parola bandita dentro ogni carcere). Trapela nel racconto di Stefano Lemma, senza esplicitarsi. Giancarlo De Cataldo scrive “la colpa, qui, coincide con la pena. E il condannato, questa pena, non solo la sceglie da sé, ma, come nella “Colonia Penale” di Kafka, a sé la infligge, diventando per un istante, quello supremo, giudice di se stesso”.
Francesco Fusano, in una sorta di lucida follia, si sente “disconnesso dalla società”. Comincia così il suo racconto “ERROR: Tossicodipendente, Criminale, Gay”. Preda di crolli emotivi che si alimentano nel disagio e nella devianza, l’autore riesce a chiudere con una frase di speranza “Fuori c’è un mondo sconosciuto che attende di essere visitato, e io sono una persona nuova. Ora ho un sistema operativo di ultima generazione.”. Una volta libero, per lui, non sarà così.
Sono storie che suscitano, di volta in volta, sentimenti contrastanti, mai tese a fare leva sulla pietà. E’ però innegabile che i racconti dei minori o quelli che rievocano l’infanzia di detenuti oggi adulti, siano spiazzanti.
A volte, mia madre preparava uno spinello per fumarcelo insieme. Non ho mai capito se questa fosse la dimostrazione del suo modo di volermi bene.
Mi addestrarono, a suon di botte, all’uso delle armi e delle bombe… mi dissero che quando si spara si deve ridere.”
La mamma ha cominciato a frequentare persone poco raccomandabili con cui partecipava a situazioni sessuali delle quali rendeva partecipi anche noi bambini.
Prima ancora della prima elementare, molte “ripetizioni private” m’insegnano un confuso e rabbioso dolore”.
Carlo Verdone, tutor di un giovane del circuito penale minorile, non ha dubbi: “Quale colpa ha avuto “Gabriel” nel percorrere per anni un sentiero che portava dritto al baratro? Alcuna. Altri sono stati sciagurati artefici del suo destino.
Alessandro D’Alatri parla di “una sconfitta che ci appartiene” e vede il testo di “Unknown” come un “messaggio in bottiglia” che le maree hanno restituito dopo innumerevoli tempeste. E di tempeste, questo sedicenne deve averne attraversate, per decidere di iniziare il suo racconto così: “Gli eroi non esistono, e se esistono non sono positivi, quindi seguirò quello sbagliato, finché non me ne accorgo”. Chissà se oggi qualcuno che ha intercettato in lui molte potenzialità, non gli abbia fatto cambiare idea?
Diversi interrogativi affolleranno la mente dopo la lettura di queste storie e saremo tentati di trovare da soli una risposta al “male”. Anche delle giustificazioni. Forse perché sappiamo che il lato oscuro si nasconde in ciascuno di noi, pronto a palesarsi.
Saremo tentati, al contrario, di ergerci a giudici quando il delitto ti sbatte in faccia il supplizio delle vittime (mai evocate abbastanza).
Occorre un respiro e cominciare a leggere. Senza pregiudizi.

I Vincitori

1° classificato
sezione “Adulti”

Cosi mi nasceva la solitudine
di Salvatore Saitto

Casa di reclusione di Orvieto. C’era una volta una rupe e sulla rupe sorgeva un castello circondato da alte mura e nel castello quasi vivevano tanti uomini e c’era un principe con i suoi cortigiani e i cortigiani dei cortigiani. Nel grande castello il cielo a volte era grigio anche quando splendeva il sole e a volte qualcuno passeggiava senza passeggiare.
Che mondo vario e variegato esisteva nel vecchio castello: uno spicchio di mondo e ognuno difendeva il suo pezzo, ma tutti sognavano il giorno in cui avrebbero lasciato alle loro spalle il portonaccio di legno tarlato.
Raccontavo e raccontavo, la sera a questi ragazzi, seduti al tavolo al centro della cella numero undici. Mi ascoltavano e viaggiavano con me, che domande strane facevano, ragazzi di Scampia che non si erano mai mossi dal quartiere, che conoscevano poco della vita, mi domandavano di tutto. Peppe non sapeva se sono i comunisti o i fascisti a salutare con il pugno chiuso, Gino credeva che Che Guevara, fosse un passato grande giocatore di calcio sudamericano.
[…]

La vita correva, fuori e dentro le mura, mentre noi ci fermavamo con i ricordi all’ultimo giorno di libertà e non ci restava che tornare indietro, ricordare una ragazza che nel frattempo non lo era più, l’odore della cucina una domenica, il profumo della signora affianco nell’ascensore, il Napoli con Michele il meccanico, il corpo di Claudio ucciso a piazza Sannazzaro. Intanto guardavo il tempo passare e correre, provai a sbarrargli la strada, ma esso mi travolse senza degnarmi neanche di uno sguardo. A volte, solo, nella branda, mi soffermavo a pensare che in effetti mi piacerebbe fare a ritroso il cammino di Daniel e Cassel, i due angeli custodi del “Cielo sopra Berlino”. Essi diventano uomini e sperimentano così il sangue e il dolore, vedono per la prima volta i colori, il caffè caldo, il cibo buono, il calore del sole, l’amore e il ventre caldo di una donna, ma Cassel, ormai umano impotente, niente potrà per salvare dal suicidio un giovane. Così, sorpreso dal pensiero nefando di abbandonare la vita, mi tuffavo nella barca con Ernest a pescare i marlin. Così mi nasceva la solitudine.
[…]

Ci scambiavamo le storie, storie di vita, la nostra realtà raccontata di sera tardi, chiusi in un bagno un metro per un metro, caffè e sigarette, avventure e disavventure, volavamo dall’India fin giù le fogne sotto qualche banca. Serate lunghe fin quando ci sentivamo sicuri che il sonno ci avesse colti appena nel letto, senza che il cervello cominciasse a correre. Una sera parlammo più a lungo del solito, il Napoli aveva perso col Villareal e noi ci sentivamo un poco così, il carcere amplifica tutto. Andammo a letto passate le due, in punta di piedi, per non disturbare i nostri compagni. Dopo poco, un sussurro: “Rore, Roreeee“.
“Dimmi, Salvatò”.
“Ma se putess fa nata rivoluzione?”
“Salvatò e tu alle due di notte vuò sapè se si può fare un’altra rivoluzione?”
“Ma pecchè ci sta un orario?” e giù un grande risata soffocata.
“Buonanotte”.

Motivazioni

In una prosa insieme fluida e vigilata, di continuo attratta dal gioco dell’immaginazione, la giornata del detenuto si scioglie da vincoli costrittivi per trovare il suo centro nel sentimento e nell’emozione. Ne viene una notevole qualità del racconto e da ciò la resa di una consapevolezza che tocca i confini di quel che chiamiamo poesia e con grazia e malinconia li valica.

1° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Zero giorni
di Unknown

Sono l’asfalto di strade, il terreno sul campo di guerra, tutto ciò che cade, su questo fior di serra. Fisso solo questo finto cielo azzurro, dimenticandomi, che sono nato in terra. Sono nato nel giardino senza rose, il giardino di cemento armato, non puoi andare a naso, né star rilassato, non è doloroso, è che non c’è fiato. L’aria è di motori, ogni odore imbalsamato, e son pochi i colori: bianco spento ed un bel nero. Non resta la scelta, un fallimento dipinto o un finto guerriero.
Il mio quartiere non è il massimo. Sfido chiunque, cresciuto dove sono nato io, ad avere un modello di vita diverso da quello che c’era nell’aria.
Quando sei piccolo non ti accorgi di certe cose, non
le vedi nemmeno, e quando scopri che ti hanno già preso, sarà troppo tardi.
Gli eroi non esistono, e se esistono non sono positivi, quindi seguirò quello sbagliato, lo faccio in silenzio, finché non me ne accorgo.
Ho 13 anni, mi sono appena svegliato per le urla di mio padre. Dev’essere lunedì, il suo giorno libero, odio il lunedì. Suona anche la sveglia, la spengo subito per non disturbare mio fratello che sarà tornato non più di un’ora fa. Mi alzo a fatica, sorrido a chiunque incroci per casa, ma un urlo interiore mi chiude lo stomaco. Mi chiudo in bagno, mentre lo specchio mi fissa, sento mio padre uscire e sbattere la porta, come se non si fosse accorto di mia madre dietro di lui, pronta anche lei per uscire e andare a lavoro.
Finalmente solo, esco dal bagno, accendo la Tv e una sigaretta, a quest’ora c’è Heidi. Guardo fuori, diluvia, non so per quale delle due cose mi prende una piccola crisi e piango. Sono lacrime amare, vorrei spegnermi la cicca sulla mano per mischiarla al rosso del mio sangue.
[…]

Strana la vita, ti ritrovi a percorrere strade impossibili, sconosciute. Vai oltre il buio, ma non per la luce, cammini per una passeggiata con le tenebre. Sono qui, nell’oblio, immenso, più di un addio mai detto, perché non vedo? Io non sento, ma non cedo, anche se non mi credo, io mento, dietro cambiamenti, non mi pento, affogherò nei sentimenti, come dormiresti, se domani non esiste? 0 piangi, non resisti, stanco sì ma che aspetti? Cambia regole, tu sei il limite.
Ora sono a cento km da casa mia, e se fossero stati mille sarebbe stata la stessa cosa. Mi sento distante, perso, sto totalmente annegando nei miei pensieri.
Sono il figlio di mezza entità, per questo sono nato senza volto, non so chi sono, vivo in terza persona. Adoro gli occhi, ed essendo nato senza volto, quando guardo qualcuno, quello sguardo diventa il mio, per questo li amo. Non mi sento solo perché lo sono, sono solo perché lo sento, e lo capisco quando abbraccio qualcuno, perché abbraccio me stesso.
[…]

Viterbo:
Ho 16 anni, la sveglia suona. Ieri sera avevo la febbre, la misuro, ho 37,8. Mi alzo, chiunque incrocio per casa non sorrido, ho bisogno di non farlo. Bevo il caffè, ma non riesco a fumare una sigaretta, mi fa male la gola, questo mi rende davvero nervoso. Riprovo a dormire senza speranza.
Un vortice nello stomaco risucchia tutto ciò che penso, di positivo o di negativo, per un attimo non rimane nulla, mi sento un barattolo vuoto.
Fuori c’è il sole, esco sul balcone e mi sdraio appoggiandomi al muro, accendo una sigaretta dopo l’altra senza accorgermene. Ho un taglierino fra le mani, non mi taglierò mai le vene, ma la sicurezza di poterlo fare, a volte, mi tranquillizza. Non piango, ma mi spengo una sigaretta sulla mano. Sono assente, tre anni fa avrei atteso che il cielo si accorgesse di me, oggi, invece, arriva qualcuno, mi accorgo che era tanto che aspettavo qualcuno. Mi chiede come sto, una volta avrei simulato un sorriso, dicendo: “Tranquillo, è solo un momento”. Invece non è un momento, sono tre anni, o forse sedici, quindi non sorrido, mi sforzo e mastico qualche parola. Mi abbraccia, tengo le mani basse, ma giuro che è la prima volta che abbraccio qualcuno, per un attimo mi manca il fiato, nessuno sa quanto ho atteso. Non sto ridendo, ma per questo istante, credo di essere felice.
[…]

Motivazioni

Ritratto di un’adolescenza anestetizzata tra centri commerciali, tv, musica sparata nelle orecchie. Il disperato bisogni di affetto e di guardare a un domani diverso.
L’autore gioca con le parole, le trasforma in musica, a tratti metallica, ne cambia il ritmo, ipnotizzando il lettore nel suo percorso alla ricerca della luce.

2° classificato
sezione “Adulti”

Fuori
di Agnese Costagli

Casa dolce casa… mi preparo all’impatto: mia mamma che cammina avanti e indietro sul terrazzo, ha telefonato almeno tre volte durante il tragitto, da una parte mi fa tenerezza, dall’altra mi fa incazzare come una bestia. …mi prende male appena varco la soglia. Vedo la polvere, la trascuratezza… Io mi facevo il mazzo per tenere in ordine, pulito, e adesso… Va be’, non è il momento per deprimermi, né per sistemare, anche perché c’è Killer che mi salta addosso, abbaiando come un forsennato. Poi devo assolutamente sedermi a tavola, visto che mamma ha cucinato e non è mica una notizia da poco! …oltretutto mi ha fatto trovare tutte le cose che non mi piacciono: zuppa e formaggio con il miele. Mi siedo e spilluzzico senza fame, anche perché in carcere non facciamo altro che cucinare e mangiare.… una proverebbe anche a stare a dieta ma soprattutto la domenica, d’inverno, quando il tempo non passa mai, magari fai il corridoio e ti ritrovi in mano un piatto di torta, uno di frittelle, una pizza e i ravioli al vapore delle ragazze cinesi.
Finito il pranzo vado nella mia stanza, il mio piccolo mondo desiderato e sognato per anni, ma anche qui un senso di vuoto.
Apro gli armadi, i cassetti con l’impressione di stare sbirciando nella vita di qualcun altro.
[…]

Motivazioni

Un racconto che si svolge in un breve lasso di tempo, la vigilia di Natale. Poche ore fuori dal carcere che ci narrano in modo amaro, dolce, commovente, cattivo, spiritoso, tutto il senso del “dentro”, della detenzione.

2° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Il prezzo della libertà
di Chuck

Kal era un tipo molto disordinato, proprio diseducato all’ordine; i vestiti, le scarpe, i suoi asciugamani stavano dappertutto. La cosa mi disturbava e aspettavo solo l’occasione giusta, ma fu lui a parlare per primo: “Io no boxe, tu vaffanculo! Lasciami stare”.
Arrivammo uno di fronte all’altro, cominciò a urlarmi contro, e io mi innervosii.
Non ci fu la rissa solo perché per Kal provavo tenerezza e allo stesso tempo timore, e mi stupì quando mi disse con il suo accento sud equatoriale: “Io no boxe, tu vaffanculo! Lasciami stare”.
Non mi accesi per il “vaffanculo”.
Per un paio di giorni Kal non mi rivolse la parola, come se la discussione partita per il suo disordine fosse stata un modo per prenderlo in giro. Tutti eravamo abituati al suo silenzio.
[…]

“Kal, te la posso chiedere una cosa? Ma cosa ti è successo al collo? Come te la sei procurata quella cicatrice?”.
Lui abbassò lo sguardo e tentò di evadere la risposta, ma la mia curiosità fu così forte che lo misi alle strette. Kal cercò di girarsi, ma io lo fissai negli occhi per la prima volta.
Tirò fuori una serie di parole senza ordine né senso, parole appiccicate: paese, guerra, cattiva, sangue, famiglia, solo, io, fucile, bastardi, morte, mamma.
Dopo la raffica venne il silenzio, e poi il pianto, incontrollato, incontrollabile.
[…]

Mi chiamo Kal e da bambino vivevo in una baracca in Somalia.
Da piccolo io giocavo in mezzo ai rifiuti.
Ho perso tanti compagni di gioco, scomparsi all’improvviso, di notte, come un brutto sogno.
Ogni notte qualcuno andava via, non si sa dove.
“Perché i miei amici non vengono più a giocare?”. Qualcuno rispose: “Perché loro ora sono uomini!”. “E come sono diventati uomini?”. “Vieni con me, seguimi, ti farò vedere le cose degli uomini”. Mi accompagnò ai margini del villaggio e mi fece entrare
in una capanna; al buio, nascosto sotto un mucchio di stoffe, c’era un oggetto nero, un mitra, e alcuni coltelli.
“Con queste cose i tuoi amici hanno saputo indossare le vesti dei soldati per portare onore alla terra e sono diventati uomini”.
[…]

Da quel momento la mia vita non fu più la stessa.
Quella stessa notte lasciai il villaggio, senza dire nulla, senza salutare nessuno, scelsi una vita da cani dentro la boscaglia, insieme ad altri balordi.
In famiglia pensarono che fossi morto.
Il primo luogo in cui si va a rubare non si dimentica mai, come un rito d’iniziazione degli antichi.
Una piccola capanna isolata, tra il bosco e la palude; non c’era nessuno ma tutto era in ordine e pronto per essere usato, la cucina, i letti, il tavolo, come se la gente fosse uscita un attimo a fumare una sigaretta.
C’erano alcune casse di legno, ci avvicinammo con il mitra impugnato.
Quelle casse contenevano armi di tutti i tipi, un vero arsenale, pistole e fucili, bombe, granate, mine anticarro.
Poi, all’improvviso, sentimmo il rumore di un carro, troppo tardi per poter abbandonare la capanna e fuggire nel bosco.
Non trovammo una via di fuga.
La capanna si riempì di uomini e di bambini con la faccia brutta degli uomini. Ci gridavano in faccia parolacce, ci sputavano addosso e poi botte da orbi e qualcuno che sparava sul tetto.
Dalla paura me la feci addosso. “Ti prego non mi uccidere, sono solo un bambino”. Ci graziarono e ci condussero nella loro vita d’inferno.
[…]

Mi addestrarono, a suon di botte, all’uso delle armi e delle bombe, m’insegnarono a sparare senza pensare; come in un gioco infantile, mi dissero che quando si spara si deve ridere.

Motivazioni

Racconto ben scritto, crudo, che coinvolge ed emoziona. E’ la storia di due ragazzini: uno italiano e uno somalo. Una convivenza obbligata, iniziata male. Poi la rivelazione di un segreto terribile che ha segnato l’esistenza del giovane africano. E l’antipatia si trasforma in rispetto.

3° classificato ex aequo
sezione “Adulti”

Il ragazzo col cappotto
di Cosimo Rega

All’improvviso la sezione del reparto si animò. Ero incuriosito, aspettai l’apertura della cella. Immobile, al centro del corridoio, sorvegliato dallo sguardo attento di un agente, un ragazzo col cappotto chiaro fissava le sbarre del finestrone fasciate da una vecchia rete metallica.
Era un nuovo giunto. Immaginai la sua età. Poco più di trent’anni, ma i capelli e la barba neri come la pece potevano ingannarmi. Il cappotto, di taglia troppo grande per lui, gli dava l’aspetto di uno squilibrato.
Sarà un terrorista arabo, pensai, mentre continuavo a osservarlo.
“È un mattarello, viene dal manicomio di Barcellona” disse uno lungo il tragitto che conduceva all’aria.
[…]

Lo trovai immobile, al centro della stanza, a fissare un punto sulla parete. Cercai di smuoverlo, fissandolo. Niente. Gli chiesi il nome, nemmeno rispose. Provai allora con tono gentile a offrirgli un caffè. Finalmente volse lo sguardo verso di me e con un cenno del capo acconsentì.
L’aroma del caffè stava cominciando a gratificare il mio olfatto, quando delle urla e passi pesanti di anfibi m’indussero a sporgermi oltre le sbarre. Alcuni agenti si stavano dirigendo di fretta verso una cella da cui fuoriusciva un fumo denso e acre che stava impregnando l’aria dell’intero corridoio. Era la cella del nuovo giunto.
Mi precipitai preoccupato. Il ragazzo col cappotto con dei vecchi giornali aveva appiccato il fuoco accanto al materasso di spugna. Ansimanti e inferociti, gli agenti cercavano di ridurre i danni con due estintori mentre inveivano contro di lui e lo spintonavano. Il ragazzo se ne stava fermo, inerme, con lo sguardo perso nel vuoto. Sospettai che a un tratto avrebbe avuto una reazione violenta, invece iniziò a piangere come un bambino. “Ho freddo” disse, giustificandosi.
Forte dei miei lunghi anni trascorsi in quel reparto e di una rispettosa comunicazione creata con gli stessi agenti, cercai di placare gli animi e poiché si era fatta l’ora della socialità, invitai di nuovo il ragazzo a prendere il caffè. Uno degli agenti mi guardò perplesso. “Ne sei proprio convinto?” pareva volesse dirmi. Lo rassicurai.
I pochi metri quadrati e l’odore che trasudava dalle pareti della mia cella, cui ero ormai abituato, sembrarono all’improvviso alterati. Avvertii uno strano rischio alle mie abitudini.
Il ragazzo pareva posseduto da forze malefiche, sobbalzava continuamente dallo sgabello dov’era seduto e con brevi scatti percorreva l’intero spazio, fino al cancello. Poi ritornava a sedersi con la stessa irruenza. Sudava terribilmente alle mani e con gesti disarticolati afferrava uno dopo l’altro dei tovaglioli di carta per asciugarsele. Cercai di metterlo a suo agio offrendogli una tovaglia, mi guardò con una tale tenerezza che dubitai appartenesse a quegli occhi.
[…]

Motivazioni

Storia originale, ben scritta, che attraverso un incontro fra due detenuti molto diversi fra loro, ci introduce nel mondo, spesso dimenticato, dei malati psichiatrici che vivono in carcere.

3° classificato ex aequo
sezione “Adulti”

Maschere dell’indifferenza
di Corvus

Ogni detenuto ha la sua storia. Quella di Claudio è come ricostruire un puzzle, fatto di anni. Non ero un suo amico, un po’ perché non lo ha mai concesso, un po’ perché io non l’ho mai voluto, ma col tempo cominciai a comprendere il suo dolore, così sottile e intriso di silenzi. In comune dividevamo il tempo degli scacchi.
Ho conosciuto Claudio fra queste mura. Sapevo che stava pagando l’omicidio della sua donna, non sembrava una persona capace di tanto.
Claudio avrebbe voluto rinascere con sembianze diverse per non riconoscersi allo specchio ma non fu così.
[…]

Divise il mondo in due: il mondo reale e quello irreale. Si convinse che fosse l’unico modo per sopravvivere senza rinunciare a vivere. Mise dell’olio sull’anima per farsi scivolare gli eventi dannosi. Ma non era sufficiente. Aveva bisogno di controllare le emozioni reali, doveva tenere le persone che amava fuori dalla verità, doveva proteggere la madre che ormai aveva ottantacinque anni. Quando gli venne in visita, era convinta che mancassero pochi anni alla sua libertà e gli diceva che una volta tornato a casa gli avrebbe preparato le melanzane alla parmigiana. Ogni volta la vedeva più stanca, lui le sorrideva, evitando il discorso della libertà, ma sapeva che sedersi a tavola con lei forse non sarebbe più successo, avrebbe dovuto campare cent’anni.
[…]

“Il colloquio. Torre ci vai dalla psicologa?”.
[…]

“Ti trovo bene Claudio”.
“Grazie, aspetto di fare il colloquio”.
“Ottimo. E chi viene a farti visita?”.
“Mia madre, ho solo lei che viene a trovarmi”.
“Bene. Mentre aspetti, possiamo parlare un po’”.
“La ringrazio. Lei è simpatica”.
“Sono felice che sia così. Hai voglia di parlarmi dite? Da quanto tempo ti trovi qui?”. Domande di cui conosceva perfettamente la risposta, ma l’ideale per sondare il terreno dietro quella facciata imperturbabile che le stava seduta di fronte.
“Cinque anni e sei mesi, giorno più giorno meno”.
“E l’ultima volta che hai visto tua madre?”. “Saranno passati un paio di mesi dall’ultima volta ma oggi viene di sicuro. Le ho preparato la torta di mele. Se vuole le do la ricetta”.
“Magari la prossima volta. Perché ti trovi qui?”. Aveva rotto il ghiaccio e non intendeva mollare la presa.
“Dovrebbe saperlo, c’è sulla mia scheda”.
“Scusami, ma nella fretta questa mattina l’ho dimenticata”.
“Non lo so, ho così tanti reati che nemmeno li conto più, ma penso che sia per un vecchio cumulo di pene”.
Tranquillo, cordiale, apparentemente imperturbabile, la dottoressa ne scrutava ogni centimetro di pelle alla ricerca di un segnale di cedimento.
Claudio guardava continuamente l’orologio che portava al polso e si rese conto che il gesto non era sfuggito allo sguardo attento della dottoressa.
[…]

L’orario della fine delle visite era ormai prossimo.
“Adesso devo andare, mi ha fatto piacere stare qui con lei”.
La dottoressa gli strinse la mano, dovette ammettere che era un bell’uomo e anche il suo modo gentile di salutarla si distingueva all’interno del carcere. Venne a sapere che da mesi non riceveva più alcuna visita. La madre era morta.
[…]

Motivazioni

L’intero racconto è una maschera, e chi la indossa sa di muoversi in un teatro dove l’esistenza riconosce se stessa solo andando dietro una verità continuamente cangiante e imprendibile. L’esito è una rinuncia che pure si tinge di nostalgia per una vita forse ancora da vivere.

3° classificato sezione
“Minori e giovani adulti”

(Non) Ho paura
di Gabriel

In questo quartiere la strada è quasi sempre deserta, i lampioni sono rotti. Sono sicuro che dietro le persiane c’è sempre qualcuno che spia e mi
guardo sempre intorno. Mi chiamo Gabriel, sono del quartiere San Camillo
e non ho mai paura di niente. I palazzi, qui, sono molto strani e quando apri il
portone c’è un cattivo odore, sembra puzza di muffa. Mia madre mi dice di stare attento perché ci potrebbe essere qualche scalino rotto. “Dove sono finito?” mi chiedo, in questo posto non mi sento a mio agio. Il suo appartamento è al terzo piano, le stanze non sono molto grandi, tranne il salotto, dove c’è un grande televisore al plasma e un acquario con dei pesci colorati. Mario, il convivente di mia madre, non è un morto di fame e ci tiene a farlo vedere.
[…]

La prima notte è andata discretamente. La mattina mi alzo per fare colazione e vedo Mario scuro in volto. Mugugnando mi dice che, per stare in questa casa, il cibo me lo devo guadagnare. Dentro di me penso che almeno poteva dirmi “buongiorno” e mi viene in mente che, quando stavo dalla nonna, i momenti trascorsi a tavola erano i più belli per condividere le cose che facevamo durante il resto della giornata.
Ora però mi ritrovo qui, in un posto dove mi sento estraneo. Mario si arrabbia, sbatte un pugno sul tavolo, io mi sento a disagio, ma ingoiando gli dico che cercherò un lavoro.
[…]

Ancora non capisco in che modo posso rendermi utile, ed è a quel punto che mia madre va a prendere uno scatolone, lo mette al centro del tavolo e aprendolo mi dice con un bel sorriso sulle labbra “Guarda che meraviglia!”. Lo scatolone è pieno di panetti di fumo. Io so benissimo che cosa sono, ma non ne ho mai visti così tanti.
Mario afferra un coltello e rivolto a me “Ora t’insegno come si fanno le stecche”. Osservo le sue mani che con pochi tagli ricavano dei bastoncini lunghi quanto un dito, mi dice di fare attenzione perché ci vuole poco perché si rompano, intanto mia madre prende della pellicola che servirà ad avvolgere le stecche. Con molta tensione mi metto al lavoro.
[…]

La mattina dopo preparo lo zaino per andare a scuola, come facevo prima. Adesso, però, nell’astuccio ho infilato venti stecche che devo piazzare.
Sono contento che papà non possa vedermi. Il mio nuovo “lavoro” non gli piacerebbe. È morto quando io avevo tredici anni. Non ho molti ricordi legati all’in- fanzia trascorsa con lui, ma so che nella sua vita ha sempre lavorato con fatica e non ha mai fatto queste cose. Io non ho molta scelta, Mario mi spaventa, penso che sarebbe capace di uccidermi se rifiutassi di lavorare per lui.
[…]

Motivazioni

Racconto di un’infanzia rubata, descritta senza odio, né recriminazioni, come un dato di fatto. L’autore abitua il lettore all’osservazione, alla notazione precisa di ambienti e situazioni, e lo coinvolge in una storia ricca di passaggi che lasciano increduli.

Menzione speciale
sezione “Adulti”

Una gita fuori porta
di Alex Free

Il viaggio sarebbe stato lungo, diceva la mamma, dovevano andare in un posto vicino a Caserta.
Giovannino già fantasticava nella sua testa: cose belle da vedere, la stazione con tante persone, il carrettino di cose buone da mangiare..
Sarebbero dovuti partire il mercoledì e avrebbero incontrato il papà il giorno dopo.
“Mamma, ma non stiamo con papà anche sabato e domenica?”
“Non si può, papà lavora”.
Giovannino pensava che il papà non gli parlava mai di lavoro e ora, all’improvviso, eccolo che lavorava anche di sabato e domenica. …qualcosa non gli quadrava. Caserta, però, lo faceva fantasticare.
[…]

Il viaggio sarebbe durato due giorni e una notte.
Si parte da Trapani per Messina, treno con cuccetta fino a Napoli. A Napoli si cambia, altro treno fino a Caserta e da Caserta bus fino a Carinola. Ecco il programma.
[…]

Carinola: campagne, strade sterrate, inferriate, alte mura di cinta fatte di cemento armato e garitte.
Mamma e bambini entrano nel penitenziario e, dopo aver compiuto i controlli, vengono accompagnati in una grande stanza per incontrare il papà. C’è un bancone così largo che quasi impedisce l’abbraccio tanto sognato. “Papà, ma tu sei in carcere?”.
[…]

Passano un paio d’ore, il tempo è finito. Inizia il viaggio di ritorno. E ora al rovescio il taxi, i treni, i paesaggi scuri e qualche lampione e poi a casa.
Venerdì Giovannino non riesce ad andare a scuola per la stanchezza. In treno, faceva finta di dormire, ma ripensava al suo papà, a quella specie di abbraccio, a quella risposta vaga e alla delusione di quel viaggio.
[…]

Motivazioni

Per aver raccontato, attraverso gli occhi di un bambino, l’avventura–sventura di un lungo viaggio per incontrare il padre rinchiuso in un carcere lontano

Poesie

La storia di Reda King (nel mondo)
di Reda King 89

Io sono fatto di un fiume che dissetava un paese
sono fatto di un libro che odiavo
sono fatto di una lacrima che mi lasciava indifeso
sono fatto di tutte le droghe del mondo
sono fatto di tutte le donne che non mi sono fatto (non ho avuto / che non ho amato / che non mi hanno amato / )

sono fatto di una morte che mi ha lasciato disperato
sono fatto della mia vita
sono fatto delle parole che non ho detto
sono fatto di aspettare (dell’attesa della fine) la fine
sono fatto della libertà che non si vede mai

dolce vita dove sei?
arriverà il giorno che ci incontreremo
io aspetto con ansia quel giorno
… se arriverà // … arriverà?

Il grande REDA KING

Motivazioni

Se la poesia è scioglimento di emozioni, anche eccesso del desiderio che si conosce impossibile e pure mai arriva a negarsi, nel lasciarsi di questi versi al possesso del mondo , compreso delle sue luci e delle sue oscurità, la voglia di conoscersi vivo e dominante rende questi versi aperti e necessari.

Non ho paura dell’inferno
di Josciua Algeri

Passano i minuti lentamente, dietro ad un blindo brindo insieme ad un fratello delinquente e ringhio,
a muso duro, contro un muro, che non proietta più futuro, occhi color Rubino e sguardo oscuro.
Lo Zaffiro è ingombrante, la mia testa è scintillante, il mio sorriso è permanente come il diamante al dito di un’ amante
Per sempre, perennemente sorridente, sotto la suola delle scarpe ogni vipera e serpente.
Pago quello che devo, non parlo, non sento non vedo e per ogni infame stappo lo spumante e bevo,
compà qua non si molla, never back down, siamo pronti alla guerra, avanti con un altro round.
La dignità mi bacia sulle labbra, non punto il dito, chiuso in gabbia, non son pentito, fiamme di rabbia il mio cuore è ammutolito, fratelli cari tutto passa niente dura all’infinito.
Tra cinque ferri osservo la luna, le stelle, i pianti delle sorelle, sprofonda la mia pelle in una, laguna,
travolto a peso piuma ma, il mio carisma è ciminiera e la paura se la fuma!
I sogni sono rari, vari, non sono chiari, la mia Vita è una gara e ho già sentito gli spari,
salto gli ostacoli e i pericoli reali, la mia malasorte,
mi ha regalato due cazzo di Ali!!
Non ho paura dell’ Inferno, del Paradiso, del Diavolo o del Padre Eterno,
non ho paura, qua non mollo, decollo, anche con uno zombie che mi tira giù dal collo!
Son due anni che sto detenuto in questo posto, non ho mai pianto, rimpianto, le lacrime hanno un costo;
ho sofferto da solo, con marjuana mi consolo, il mio ruggito nella jungla è forte quanto un tuono.
Corse nei campi, lampi e saette all’ora d’aria, c’è una preda dissanguante in una camera mortuaria,
amico, della Polizia Penitenziaria, Pitbull e Bull terrier con la bava affamati di Gloria!
L’ ombra che batte, il cuore che batte, non mischio le carte, resto sempre da una sola parte;
Non mi metto in disparte, per ogni uccellino che canta voglio la Morte.
Non ho paura dell’Inferno, del Paradiso ,del Diavolo o del Padre Eterno,
non ho paura, qua non mollo, decollo, anche con uno zombie che mi tira giù dal collo!
Non ho paura dell’Inferno, del Paradiso ,del Diavolo o del Padre Eterno,
non ho paura, qua non mollo, decollo, anche con uno zombie che mi tira giù dal collo!

Josciua Algeri

Motivazioni

Possiamo senza dubbio sentire in questi versi rimati e fortemente ritmati la forza e l’ardore di una giovinezza innamorata di se stessa. Vi risuonano la sregolatezza emozionale di Rimbaud e l’urlo liberatorio di Ginzberg. Ne viene la prova di come la poesia, raro uccello, dono prezioso e inatteso, possa felicemente mostrarsi e iniziare un cammino.

Autori finalisti e Tutor

I finalisti della sezione Adulti

gli autorii tutor
GIOVANNI ARCURIAntonio Scurati
MUSTAFA BOUSSALAHMirella Serri
CORVUSGiancarlo De Cataldo
AGNESE COSTAGLIValeria Parrella
FRANCESCO DE MASIAndrea Vianello
VINCENZO DE ROSAAntonella Lattanzi
FRANCESCO FUSANOMaurizio de Giovanni
KALLEAndrea Purgatori
QANI KELOLLIMarco Franzelli
MICHELE MAGGIOGiordano Bruno Guerri
MASSIMILIANO MAIOCCHETIRoberto Riccardi
MIKEFiamma Satta
MORFEOFederico Moccia
FABIO PADALINOFrancesca Melandri
COSIMO REGACarlo Lucarelli
SALVATORE SAITTOErri De Luca
LORENZO SCIACCAMarco Buticchi
SALVATORE TORREValerio Evangelisti
CARMINE CROCCOMassimo Lugli
ALEXFREESilvia Calandrelli

I finalisti della sezione “Minori e giovani adulti”

gli autorii tutor
CHUCKCinzia Tani
FRISKÈPino Corrias
GABRIELCarlo Verdone
RAILYGloria Satta
UNKNOWNAlessandro D’Alatri
VANESSA PELLEGRINOMarida Lombardo Pijola

Giuria "Narrativa"

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Giuria "Poesia"

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Riconoscimenti

Con l’Adesione del Presidente della Repubblica e sua Medaglia di Rappresentanza.

PATROCINI: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Rai Radiotelevisione Italiana.

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Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio