Il Libro

COSÌ VICINO ALLA FELICITÀ
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Link di acquisto: Amazon

“Anche la catena del male si può spezzare. Accade quando uno dei suoi anelli, una delle persone che compongono la catena, decide di liberarsene, di perdonare”. Lo scrive uno dei detenuti finalisti del Premio Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere, concorso letterario rivolto ai detenuti (adulti e minori) di tutte le carceri italiane. Così vicino alla felicità racchiude le loro storie, storie che trasudano verità, vite vissute dentro e fuori le mura di una cella. Il tema del “perdono” fa da sfondo a queste narrazioni, ed emerge a tratti nella consapevolezza che sia l’unica – sofferta – via d’uscita. A tratti, invece, nella non facile ammissione di non aver saputo ancora intraprendere quel cammino: “Dissi a chi avrei dovuto chiedere perdono di sentirsi libero di odiarmi… alla fine quel debito sarebbe risultato in qualche modo saldato…”. Le introduzioni dei racconti sono state affidate a grandi scrittori ed artisti.

«Mi colpisce la psiche dei detenuti. Coloro che hanno sempre dato precedenza all’azione quando si trovano chiusi e privati della loro libertà portano fuori il pensiero, la riflessione, la voglia di migliorare i propri rapporti. E l’azione scompare. Vediamo allora che la scrittura diventa come quella farfalla che spesso hanno tatuata: la loro forza».

Dacia Maraini

Un nuovo libro di racconti dalle carceri nel nome di Goliarda Sapienza. Un’altra raccolta di storie stracolme di esperienze e di umori. Con la tutela e l’attenzione viva di un gruppo di scrittori noti e autorevoli. Da che lasciarsi prendere? Forse dalla compassione, nel senso della condivisione, forse dalla drammaticità delle vicende raccontate; certo dalla capacità di cercarsi in una scrittura che significa ed esprime il coraggio di consegnarsi agli altri e al mondo nella propria accostata o ritrovata verità.

Elio Pecora

COSÌ VICINO ALLA FELICITÀ
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

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“Anche la catena del male si può spezzare. Accade quando uno dei suoi anelli, una delle persone che compongono la catena, decide di liberarsene, di perdonare”. Lo scrive uno dei detenuti finalisti del Premio Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere, concorso letterario rivolto ai detenuti (adulti e minori) di tutte le carceri italiane. Così vicino alla felicità racchiude le loro storie, storie che trasudano verità, vite vissute dentro e fuori le mura di una cella. Il tema del “perdono” fa da sfondo a queste narrazioni, ed emerge a tratti nella consapevolezza che sia l’unica – sofferta – via d’uscita. A tratti, invece, nella non facile ammissione di non aver saputo ancora intraprendere quel cammino: “Dissi a chi avrei dovuto chiedere perdono di sentirsi libero di odiarmi… alla fine quel debito sarebbe risultato in qualche modo saldato…”. Le introduzioni dei racconti sono state affidate a grandi scrittori ed artisti.

«Mi colpisce la psiche dei detenuti. Coloro che hanno sempre dato precedenza all’azione quando si trovano chiusi e privati della loro libertà portano fuori il pensiero, la riflessione, la voglia di migliorare i propri rapporti. E l’azione scompare. Vediamo allora che la scrittura diventa come quella farfalla che spesso hanno tatuata: la loro forza».

Dacia Maraini

Un nuovo libro di racconti dalle carceri nel nome di Goliarda Sapienza. Un’altra raccolta di storie stracolme di esperienze e di umori. Con la tutela e l’attenzione viva di un gruppo di scrittori noti e autorevoli. Da che lasciarsi prendere? Forse dalla compassione, nel senso della condivisione, forse dalla drammaticità delle vicende raccontate; certo dalla capacità di cercarsi in una scrittura che significa ed esprime il coraggio di consegnarsi agli altri e al mondo nella propria accostata o ritrovata verità.

Elio Pecora

Prefazione

di Monsignor Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede

Un mondo a parte

«Il cielo è, al di sopra del tetto, / così azzurro, così calmo! / Un albero, al di sopra del tetto, / dondola la sua palma. / La campana, nel cielo che si vede, / dolcemente rintocca. / Un uccello, sull’albero che si vede, / canta il suo lamento. / Dio mio, Dio mio, la vita è là, / semplice e tranquilla. / Quel placido brusio / viene dalla città. / Che hai fatto, tu che sei qui / e piangi senza fine, / dì, che ne hai fatto, tu che sei qui, / della tua giovinezza?». Con queste parole, intrise di dolore e nostalgia, ma nello stesso tempo animate da un respiro di speranza, il poeta Paul Verlaine evoca la sua esperienza del carcere. Sente profonda la separazione tra il mondo dentro le mura e quello fuori, tra il brusio del fluire placido della vita e l’implacabile monotonia che toglie il respiro e modifica la percezione del tempo e dello spazio.

Il grido del sangue di Abele ricorda che la storia dell’umanità è segnata dal peccato e, a volte, il peccato è anche un crimine. Questa è la distanza tra noi e un uomo o una donna in carcere: hanno compiuto un’azione che viene dichiarata reato dal codice di diritto penale. Per questo, come il peccato è assunto dal cuore misericordioso di Dio, anche il reato viene assunto con decisione e tratto di certezza dalla società che sa mostrare – almeno si spera – la cura per una riabilitazione della libertà fino a renderla di nuovo capace di scegliere il bene.

Oggi, non mancano riflessioni e dibattiti sulla capacità del sistema detentivo di reintegrare uomini e donne nelle regole sociali, al fine di ristabilire il profilo della dignità umana, soprattutto riconsegnando visioni progettuali positive alle persone. Fare i conti con un peccato, che ha i connotati del reato, e con le conseguenze che sono reclusione e spesso solitudine e abbandono, costringe a situazioni di marginalità, di precarietà, di drammaticità a cui non possiamo abituarci chiudendoci in un gelido cinismo.

A questo proposito è significativo il richiamo di papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia “Misericordiae vultus”: «In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (n. 15).

Proviamo ad ascoltare il muto grido, intriso di rabbia e rassegnazione, facciamo spazio nel nostro cuore al procedere inesorabile di giorni nei quali le persone invecchiano senza accorgersene, bruciano gli anni migliori della loro vita, fino a odiare se stessi e gli altri, mentre versano lacrime amare per la morte del padre o della madre che non hanno più potuto riabbracciare. Tutto sembra un interminabile oggi con un prima da detestare e un domani di cui non si coglie il profumo dell’alba.

Le pagine di questo libro, grande e doloroso affresco di una umanità dolente, ci guidano a un esercizio di ascolto e di comunicazione inedito, attraverso uno sguardo sulla vita dalla prospettiva di chi sta dietro le sbarre. Trascorrono anni della loro esistenza e avvertono nella propria carne che in carcere non c’è nulla di eroico, di romantico, di “formativo”, ma soltanto la amara convinzione di aver fallito qualcosa, di aver fatto del male a se stessi, alla propria famiglia e alle persone più care.

Proviamo solo a immaginare, come in una sequenza onirica, il rumore della chiave che gira nelle serrature e annuncia l’inizio di un altro giorno, uguale al precedente e a tanti altri già consumati ma non dimenticati. Così, mentre i passi della guardia si allontanano si sente risuonare nel cuore una voce a ricordarti che sei in carcere, privo della tua libertà, e ogni tuo diritto dipende da altri. La giornata si apre ancora una volta con lo sconforto di dover vivere da spettatore, pieno di rimpianti e di rancore, ma anche di autocritica e, per grazia, anche di pentimento.

Misericordiosi e giusti

Partiamo da una convinzione ancora abbastanza diffusa: servire Dio significa “pagarlo”, offrirgli sacrifici in modo da garantirci i suoi favori. L’uomo, dunque, cerca di placare Dio risarcendolo con il sacrificio. La Bibbia propone, invece, una modalità diversa di “servire” Dio. In essa si dice che servire Dio significa servire/amare il fratello, cioè per puntare diritto al Creatore è necessario “deviare” verso la creatura. Questo procedere diritti deviando, la Parola biblica lo definisce giustizia (cf Is 1,16-17). La misericordia, dunque, nella prospettiva biblica è il compimento della giustizia, che ha il suo culmine nelle parole di Gesù «ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La misericordia, nelle parole di Gesù, annuncia che il tempio è senza dubbio un luogo della presenza di Dio, ma vi è anche un altro spazio sacro in cui questa presenza è, per certi aspetti, “più grande”, e questo è l’amore per i fratelli, il luogo dei rapporti umani cambiati secondo l’ordine della compassione. Forse, ci farebbe più comodo un Dio che chiede sacrifici in un tempio, ma il Dio biblico ha un concetto di persona più alta, un’idea di uomo fatto a Sua immagine e somiglianza. Di fronte a questa modello di persona così elevato stentiamo a comprendere, non riusciamo a coglierne in pieno il significato.

È ancora Papa Francesco a offrirci lo spunto per una riflessione schietta, senza reticenze o inutili ipocrisie: «Non sarà inutile in questo contesto richiamare al rapporto tra giustizia e misericordia. Non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore. La giustizia è un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si fa riferimento a un ordine giuridico attraverso il quale si applica la legge. Per giustizia si intende anche che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia, molte volte si fa riferimento alla giustizia divina e a Dio come giudice. La si intende di solito come l’osservanza integrale della Legge e il comportamento di ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio» (Misericordiae vultus, 20).

Siamo tutti consapevoli che, da un lato, è necessario tutelare la società da eventuali minacce, dall’altro reinserire chi ha sbagliato senza lederne i diritti e senza escluderlo dal tessuto sociale. Entrambi questi aspetti hanno la loro rilevanza e vanno connessi per creare una sinergia tra la realtà carceraria attuale e quella pensata dalla legge, che prevede come elemento fondamentale la funzione rieducatrice della pena e il rispetto delle norme giuridiche e della dignità delle persone.

Quali le prospettive di giustizia, allora, per questo nostro tempo? Giustizia riparativa, mediazione penale, modalità di risposta – materiali e simboliche – al reato e al reo che ricerchino responsabilizzazione e avvicinamento alle vittime: una giustizia, cioè, che non separi e isoli; che sia vissuta meno come il luogo della lite e della frattura e più come luogo di composizione di conflitti, di ristabilimento dell’armonia sociale nel senso dell’antica giustizia biblica. Sulla base di queste riflessioni, in coincidenza anche con l’Anno Giubilare, da più parti, si è levata la voce a favore di “gesti di clemenza”.

Mi sembra importante sottolineare che i gesti di clemenza non possono essere in nessun modo riconducibili solo all’amnistia o all’indulto, per esempio. Le misure di indulgenza invocate, infatti, hanno ragione d’essere se inquadrate in radicali e innovative riforme strutturali dell’intero sistema penitenziario. La vera sfida per la società civile e la comunità cristiana è che il carcere sia parte viva della convivenza quotidiana, altrimenti non ha senso parlare di gesti di apertura, né tanto meno di risocializzazione, reinserimento, riconciliazione e accoglienza.

In questo senso, il tempo del Giubileo può essere la stagione più opportuna per promuovere riforme in tema di giustizia. Allo stesso tempo, il gesto di risocializzazione trova valore se legato a qualche riforma e deve rappresentare per il beneficiato anche la coscienza di un cambiamento di vita. Infatti, i gesti di recupero e di misericordia non significano perdonismo unilaterale ma cammino comune di cambiamento, dove la libertà ridonata può costituire occasione di scelta per il bene comune, salvaguardando, al tempo stesso, le esigenze di sicurezza sociale e la funzione risocializzante della pena. Un’analisi spassionata, dunque, ci spinge a superare una visione del carcere come scorciatoia per riparare al male con il male, per orientarci verso la frontiera di un nuovo umanesimo che ci invita a vedere, davanti alla Croce, anche le altre due croci che ci sono a fianco.

Papa Francesco ai carcerati di Velletri scriveva “Dio vi ama sempre, non importa gli errori che avete commesso”. Sono parole che accendono la speranza in chi vive un’esperienza nella quale il tempo sembra essersi fermato, il vivere è ridotto a brandelli, ogni prospettiva inesorabilmente sbarrata e senza via d’uscita. Quello che soprattutto conta è non lasciarsi imprigionare dal passato, ma rimanere aperti a possibilità di cambiamenti radicali, come affermava ancora papa Francesco: «aprite la porta del vostro cuore a Cristo, e sarà Cristo a capovolgere la vostra situazione. Con Cristo è possibile tutto ciò!».

Nel delicato rapporto tra perdono e giustizia non possiamo dimenticare l’incontro di papa Francesco con i carcerati a Ciudad de Juarez, il 17 febbraio 2016, per «celebrare il Giubileo della misericordia con voi e ricordare il cammino urgente che dobbiamo intraprendere per spezzare i circoli viziosi della violenza e della delinquenza». Sulla scorta del monito del Santo Padre è possibile prendere coscienza che, spesso, l’illegalità è il sintomo di un problema più vasto, il disadattamento sociale, e, forse, abbiamo perso diversi decenni a convincerci che tutto si sarebbe risolto isolando, separando, incarcerando, togliendoci i problemi di torno. La misericordia ci ricorda, invece, che il reinserimento non comincia tra le pareti di una prigione, ma inizia prima, ‘fuori’, attraverso le vie della città.

Il reinserimento o la riabilitazione necessitano di un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una comunità che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto l’ambito del tessuto sociale. L’impegno è quello di costruire una rete di relazioni umane in grado di generare una cultura di conoscenza, di promozione del territorio, come pure di prevenire situazioni di degrado, che finiscono per ferire e deteriorare la convivenza tra le persone. Infatti, il reinserimento nella comunità civile inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l`accesso ai servizi fondamentali, per ricordare solo alcune misure.

A partire da questa prospettiva di speranza è possibile rialzare la testa, lavorare per ottenere il desiderato spazio di libertà, consapevoli che la storia non si cambia, non si può riavvolgere la pellicola per cambiare l’epilogo del racconto. Ma questo non significa porre la pietra tombale sull’esistenza di chi ha sbagliato, dal momento che è sempre nostro impegno offrire una possibilità di riscatto soprattutto nei momenti più duri e spinosi dell’esistenza.

Scrivere per rinascere

Quando le tenebre scendono e la nebbia avvolge tempo e spazio in un tutto uniforme che stordisce e disorienta, si rivela terapeutica la comunicazione, di cui la scrittura ne è parte fondamentale, come diceva Gesualdo Bufalino: «Si scrive per guarire se stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore». Infatti, il proprio vissuto, soprattutto quando è intriso di sofferenza e striato di sangue, può diventare materia grezza da plasmare attraverso l’esercizio dello scrivere. Possono capitare momenti in cui la desolazione fa da sfondo al presente, sgualcisce le foto del passato e compromette irrimediabilmente il futuro, fino a mettere in dubbio il senso della propria esistenza. Proprio in quelle circostanze la scrittura può irrigare il deserto dell’anima, offrendo un foglio bianco su cui riversare, come in un album, non soltanto i ricordi collezionati in un passato, si spera più felice, ma anche i momenti difficili che si stanno affrontando. Descrive queste dinamiche, in modo appassionato fino a rasentare il lirismo, Beatrice Balsamo in La parola del narrare e dell’incontro: «Il raccontare di cui questo volume è costituito non è un chiacchericcio o espressione di opinioni ma una vera e propria opera di tessitura e intrecciamento alla ricerca di qualcosa che vale la pena cercare: il senso della propria vita. E il racconto non è cronaca puntigliosa del susseguirsi di eventi, ma selezione, frammenti. “Il dettaglio significante (racconto quei fatti e non altri) fa evento, convoca, è ciò che è del tutto ma che eccede dal tutto e mi convoca fuori dal tutto, dettaglio, carico di senso. Proprio quei particolari […] e non altri fondano il mio narrare, diventano, cioè, contingenza eccezionale, mi suscitano commozione e lacerazione. Ma questi fatti particolari che sono la rappresentazione della mia vita non sono mai conchiusi, rinviano sempre a un mistero, ad una attesa (costitutiva dell’incontro) e al silenzio» (pp 64-65).

Infatti, la privazione della libertà stravolge brutalmente la vita, come una tempesta, vi echeggiano tuoni fragorosi là dove prima risuonavano le risa, i lampi squarciano il cielo, abbagliano e confondono, mentre lacrime di pioggia e nubi minacciose non permettono di guardare al domani divenuto ormai un muro invalicabile.

Il racconto, fatto di parole e di immagini, di sorrisi e di lacrime, di emozioni e di sentimenti, di ribellione e di rabbia, diventa, così, un terreno su cui coltivare la comunicazione con se stessi, l’occasione per far emergere le proprie paure e, attraverso il potere catartico della narrazione, esorcizzare le sofferenze e medicare le ferite. Scrivere porta a indagare il significato di ciò che si custodisce nel cuore, fosse anche qualcosa di sconvolgente e di assurdo, leggendo e rileggendo le pagine della propria storia con occhi sempre nuovi. Nella notte della libertà negata, nell’incubo angosciante in cui l’alba di un’esistenza non più costretta entro spazi obbligati, a volte, pare proprio difficile da scorgersi, gli occhi della scrittura permettono di vedere oltre, di leggere la propria vicenda con una forza nuova, di immaginare una possibilità di riscatto.

Un altro aforisma di Bufalino mi aiuta a chiudere questa breve premessa a un testo così intenso e vibrante: “Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto”. Auguro che questo libro sia occasione di incontro e di confronto non tra sconosciuti, ma tra donne e uomini che, grazie alle storie narrate e qui raccolte, si possano conoscere e diventare amici prendendosi cura gli uni degli altri.

Introduzione

di Antonella Bolelli Ferrera

Quando il bambino tornò si mise come sempre ad aspettarla sull’uscio di casa. Casa. In realtà una minuscola baracca in mezzo alla campagna con una stanza e una specie di bagno all’esterno dove fare i propri bisogni. Quel giorno l’attese fino al tramonto, ma lei non tornò nemmeno quando si fece buio e le stelle cominciarono a brillare nel cielo della notte. All’alba del giorno dopo il bambino era ancora lì, solo, ad attenderla inutilmente.

Avrà avuto ieci anni Stefano, quando subì l’abbandono della madre. Oggi ne ha più di cinquanta ma il ricordo di quel vuoto improvviso, di quel dolore, è così vivo e cocente che leggendo il suo racconto sembra di udirne il lamento.

Storia di un’infanzia negata, una storia come tante nel mondo carcerario dove tanti ex bambini approdano ogni giorno per ragioni-reati diversi, in comune hanno l’inizio sbagliato ai nastri di partenza di quella gara a ostacoli che è la vita.

C’è chi la sua carriera di fuorilegge la comincia ancora ragazzino: “Avevo quattordici anni. La mia specialità era scippare le vecchiette. (…) Poi sono passato ai furti in appartamento, un lavoro più tranquillo, più pulito. Almeno non vedevo in faccia la gente che derubavo”. Lo scrive Butterfly, autore di uno dei racconti di questo libro, finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Sono storie di donne e di uomini detenuti, e anche di giovanissimi del circuito penale minorile. Tutti sembrano raccontare la stessa verità di fondo, a volte in modo diretto, crudo, quasi brutale: “Nelle fantasie di bambino i supereroi erano i parenti che vendicavano l’ultimo morto e liberavano la famiglia da quel sangu chi faciva u murmuru”. Paolo, cresciuto in una famiglia mafiosa, non vede l’ora di imboccare quella strada già tracciata da regole non scritte dove se nasci femmina devi piangere i morti e se nasci maschio devi rendere giustizia e vendicare quel sangue. Così farà, anche se quel giorno non proverà né orgoglio né soddisfazione, solo ribrezzo. Ma un “uomo d’onore” non può mostrare alcun cedimento.

C’è chi, come il giovane Valia, cerca una spiegazione (non una giustificazione) alla propria storia di devianza usando la metafora e infilandoci un aggettivo inventato che ha sentito alla Tv: “Mi sento petaloso, ma cresciuto in un prato sbagliato (…). Un fiore diventato arido come il terreno da cui proviene. Brutto e pungente per non farsi strappare”.

Adelmo, invece, romano della Magliana, figlio del Freddo, scrive che farsi amare da lui era talmente impossibile che per riuscirci ha cercato di eguagliarlo. Ci è riuscito, e adesso è in galera. Subito, però, infilza il lettore con una frase che rivela la ricerca di attenuanti per quel padre presuntuoso che si credeva un Dio in terra: “Il danno dell’amore si trasmette di generazione in generazione: lui, senza una madre da abbracciare, come poteva accogliermi?”.

Antonio Pascale nella sua introduzione a uno dei racconti arriva a chiedersi se esista un determinismo ambientale e persino un determinismo genetico che influenzino la capacità di gestire il proprio destino. I racconti, quasi tutti, come le altre centinaia che hanno partecipato al concorso, suggeriscono questa domanda, anche se ogni vita in fondo ha una sua unicità. C’è una tale amalgama di sentimenti contrastanti in queste storie (in queste vite) da permettere quasi di coniare nuove definizioni come l’odiore, o la disperanza, quando sono l’odio e l’amore, la disperazione e la speranza, a farsi la guerra dentro lo stesso animo. Ogni tanto uno dei due prevale: “Fin da quando ero giovane a rendermi forte era stato il rancore dei miei nemici, ancora più del mio nei loro confronti”, scrive Salvatore, ma ecco che qualcosa accade e gli fa ammettere “Questo ragazzo, privandomi del suo (ndr disprezzo), mi costringeva a trattarlo senza l’indifferenza e la malizia che avrei voluto. Era la peggiore delle condanne per me, visto che avevo usato l’idea del suo disprezzo per alleggerire la mia coscienza”.

Sono soprattutto storie al maschile: racconti di uomini in gabbia, in fuga, in agguato, in azione. Le poche al femminile battono su un diverso medesimo, drammatico tasto: la violenza sulle donne. “Mamma permetteva a mio fratello di picchiarmi. Mi diceva: diventerai donna, preparati a soffrire”. Lo scrive Olga nel suo racconto “Il cerchietto di soffioni. Confessioni di un’assassina”. Sì, perché un giorno, in un crescendo di rancori covati e di violenze subite, forse in parte solo nella sua mente, quella mamma lei l’ha uccisa.

Deja vu invece è il racconto di uno stupro perpetrato nel tempo. Vittima una ragazza adolescente. L’orco è il nuovo compagno della madre. “È tornato. (…) Riesco a sentire il cattivo odore del vino che penetra dalla porta della mia cameretta. È un odore che ricorda l’uva caduta e mai raccolta, acini decomposti. Tiro la coperta sopra di me. (…) Mi convinco che se non posso vederlo, anch’io risulterò invisibile ai suoi occhi.” Inizia così, il resto è il lievitare di un’agonia che si manifesta ogni notte, dove l’attesa della violenza è terrificante più dell’atto che presto sarà consumato su quel corpo indifeso.

L’orco si manifesta anche nel racconto di Gianluca dove un sedicente mago fa scempio dell’ingenuità di un bimbo di nove anni, caduto nelle sue grinfie perché nelle vie di Napoli non aveva un posto dove mangiare e dormire. Perché a casa non aveva nessuno che lo accudiva e lo proteggeva. “Mia madre, lo sguardo paralizzante degli occhi di un cobra, non ha pianto una sola lacrima per me. E neppure mio padre: lui non è mai esistito”. Sarà il boss di un quartiere a prenderlo sotto la sua ala protettrice e il carcere diviene quindi l’approdo automatico. Ma è proprio qui che prende la licenza di scuola media, che trova l’amicizia e qualcuno che lo aiuta a ricucire i fili di una vita spezzata. Ed è commovente la chiosa finale dove l’autore sente il bisogno di chiedere perdono. Di chiederlo non solo alle persone cui ha fatto del male, ma di chiederlo alla madre dagli occhi di cobra e a quel padre inesistente “per non essere stato il figlio che volevano ma essere stato il figlio che non volevano”. Ha parole persino per l’orco: “Ho provato a perdonare anche lui, ma ancora non posso. Forse un giorno, con l’aiuto di Dio”.

Imboccare la strada del perdono (agli altri e a se stessi) non è facile per chi si trova recluso e ritiene di avere in tal modo saldato ogni debito, anche quello con la propria coscienza. È un tema che solitamente non trova spazio nei racconti dal carcere, ma il Giubileo dei carcerati voluto da Papa Francesco, e a cui l’edizione 2016 del concorso era ispirata, sembra aver dato energia a un sentimento che era lì sopito e ha preso vita anche in queste pagine. Non tutti vi giungono con la stessa intensità e convinzione. Certamente il saper esprimere attraverso la scrittura un’esigenza dell’anima così intima dimostra di non avere paura di ciò che rimarrà per sempre, nero su bianco, sulle pagine di un libro. La scrittura come potente antidoto, scrive Erri De Luca.

“Io scrivo in preda alla disperazione. Io scrivo per sopravvivere. Scrivo perché ho bisogno di riempire il tempo. Scrivo perché voglio star meglio. Io non scrivo perché non mi va, perché la mia mente è chiusa, ma poi lo faccio perché mi voglio sfogare”. Incipit di tante piccole storie di un racconto corale scritto da Antonio, un giovane del minorile. “Come si placa il dolore?”, si chiede uno di loro. La risposta sembra giungergli da quel compagno di detenzione, pentito per essere partito dalla Libia senza aver detto addio a nessuno, e che conclude: “il dolore finisce con il perdono”.

C’è chi ammette però di non esserne capace. “Qualcuno ha provato a dirmi come mi sarei dovuto sentire e cosa avrei dovuto provare”, scrive Michele che un giorno sparò a un uomo, uccidendolo. Nemmeno per lui, che ha trasformato la vergogna e il dolore in odio, è stato facile parlare di riconciliazione, non è ancora pronto. Ma infine ammette: “Non arriverò correndo, ma arriverò”. Qualcuno è caustico e dal suo tunnel ancora non si intravvede la luce: “La morte non rende tutti uguali, e forse anche le richieste di perdono funzionano allo stesso modo”. Ma Elias appartiene a un mondo arcaico, immerso nel cuore della Barbagia, dove vigono regole non scritte quasi in antitesi ai nostri Codici, dove il concetto di valentìa rimane un credo irrinunciabile. Qualcuno si chiede candidamente cosa sia il perdono e si risponde: “credo sia un sentimento, qualcosa di infinitamente profondo. Pare faccia vivere meglio”. Forse a suggerirglielo è stato quel prete “dai capelli lunghi e l’incolta barba bianca. Mezzo pazzo e mezzo rivoluzionario, non sembrava quasi un sacerdote. (…) Ha scavato nelle mie membra fino a toccarmi l’anima.”

Ognuno, a modo suo, fa i conti con la propria coscienza e la maggior parte trova il coraggio di pronunciare la parola fatidica. È poesia con Fusano “Se solo queste vite fuori dal tango sapessero che il verbo amare non si sposa con dare, ma con perdonare.” E con il giovane Unknown che in questi anni ha percorso un lungo tratto di strada: “Una sola è la vita, infinite sono le possibilità di cambiarla, l’unica regola è non negare mai le proprie origini”. E nelle ultime parole il senso della sua trovata consapevolezza: “Perdonate l’emozione”.

I Vincitori

1° classificato
sezione “Adulti”

Cemento urlante

Sono sveglio ma non mi alzo. Ho sete ma non bevo. Mi godo il torpore dei miei muscoli e delle mie ossa, zittisco anima e coscienza, tanto loro sono abituate e mi lasciano in pace da tempo, assaporo il silenzio. È difficile credere che questa sia la stessa sezione di ieri sera, è difficile credere che questo sia lo stesso carcere senza la gente che strepita e dà di matto: cemento urlante, tutto intorno a me. Anche fuori di qui, anni fa, il silenzio dell’alba era un regalo impagabile.

Ho visto persone tagliarsi, cucirsi e tentare il suicidio; ho visto persone prendere a testate il muro, sballarsi col gas delle bombolette o bruciando le posate di plastica; ho visto persone bere la candeggina, ingoiare pile o lamette; ho visto gente salire sui tetti, buttarsi giù dalle scale volontariamente e inventare nuove forme di autolesionismo (anche acrobatico e sincronizzato); ho perso il conto degli affiliati (sedicenti e molto presunti) alle varie associazioni a delinquere, mafie e affini, dalla “A” (muta) di ‘ndrangheta alla “Y” della Yakuza giapponese (anche se qualcuno la chiamava Jacuzzi); l’apice è stato toccato da un detenuto pugliese che mi assicurava di far parte degli Hell’s Angels di Los Angeles. Il punto dolente di tutta la faccenda è che senza nemmeno rendermene conto questa è diventata la mia vita.

Il 6 ottobre 2008 ho sparato a un uomo, uccidendolo. Ho fatto ciò che ho fatto, sono stato giudicato, sono stato messo in un angolo. Qualcuno mi ha chiesto come mi sentissi e cosa provassi. Qualcuno ha provato a dirmi come mi sarei dovuto sentire e cosa avrei dovuto provare. La verità è che ho superato un limite che non andava nemmeno sfiorato.

Motivazioni

Per il grande ritmo e la sapiente costruzione narrativa, Michele Maggio riesce a interessare il lettore e a sviluppare un piano sequenza cinematografico amaro e divertente, ironico ed estremamente realistico. Tutti i personaggi vengono delineati con pochi, netti tratti, fino all’ultima cella, in cui l’autore dimostra non solo maturità letteraria, ma anche capacità introspettiva e coraggiosa coerenza.

1° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Il biglietto di Rosa Parks

Questa storia noi l’abbiamo costruita insieme.
Abbiamo scritto insieme queste pagine confuse, seduti sui banchi disordinati di una scuola carceraria: qualcuno non ha perso un incontro, qualcun altro è andato subito via. Molti si sono stancati perché “tanto è tutto inutile, è solo tempo sprecato”.
Allora penso a tutti quei ragazzi che hanno passato il loro tempo insieme a me, e dedico loro questo lavoro infinito di ricerca e di gioia effimera.

Antonio è uno di noi, 17 anni compiuti in carcere, passati in fretta, volati in un baleno, dimenticati agli occhi di tutti.
Antonio siamo noi, scarpe grandi e cervello fino, mani veloci e capelli tagliati a mezza testa.
Antonio sono io, cresciuto in carcere, perché in fondo rinchiuso sto bene e non mi lamento mai; pensavo di essere forte e di non aver paura di nulla. Ero bravo a fare rapine, fino a quando non mi hanno arrestato.

Cara mamma, per me sei unica, mi hai portato nel grembo per nove mesi, mi hai allattato al seno per due anni. Ho solo te in questo mondo, e mi manchi. So che sei arrabbiata con me, perché ho scelto di partire.
Io sto bene, ma non sono felice.

Voglio stare con te a guardare le stelle. Mi manca il calore dei tuoi abbracci. Un’ora di colloquio a settimana non mi basta, non mi basta più!
Ma da questo angolo le stelle non si vedono, affogate dalle luci dei lampioni.
Non è giusto non poter vedere mai le stelle di notte.

Motivazioni

Originale, musicale, comunicativo. Una storia non storia che avvolge e affascina, un collage di anime “graffiate”, che si raccontano con la purezza e l’impulsività tipica della loro giovane età. Uno sguardo critico e allo stesso tempo spontaneo sulla vita, corale e complesso, nitido e struggente.

2° classificato
sezione “Adulti”

L’orto delle fate

Ho da scrivere una favola di orchi e di fate.
Sono cresciuto incolpando mia madre di avermi abbandonato. Sono cresciuto coltivando il dolore.

Un giorno decisi di scrivere a Martina, la più piccola delle mie figlie, che oggi ha ventidue anni.
“Ciao Piccola Rosa bianca, io e te ci siamo sempre visti solo nella sala dei colloqui, e quando ero fuori non parlavamo molto. So che non sono mai stato un padre, io non c’ero mai: alla tua prima comunione, al tuo primo giorno di scuola, al tuo diciottesimo compleanno. Tu eri piccola, e una volta che mi hanno arrestato, ti ho lasciato al commissariato.
Ci vorrà del tempo perché tu mi perdoni, quanto ne è trascorso prima che io trovassi il coraggio di chiedertelo”.

La nuova risposta di Martina non si fece attendere.
“Ciao papà, c’è una cosa che volevo dirti: tu non parli mai di nonna Natalina. È tua madre. Ho visto una sua foto, l’aveva mandata per te in una lettera, mamma mi ha detto che non hai mai voluto leggerla. Che cosa dirò ai miei figli se non conosco la storia di mio padre?”

Non so chi fosse mia madre: distratta, bella e con gli occhi sempre tristi, non ho avuto il tempo di conoscerla, io non capivo molto di lei.
Non era una madre severa, mi ricordo che le sere di primavera ci sedevamo sul gradino, davanti alla porta, in compagnia della luna e delle lucciole che danzavano sul piccolo orto che lei curava con amore.
Mi raccontava le fiabe di un orto fatato dove, al calar del sole, le verdure si animavano.

Motivazioni

Un racconto toccante e commovente, autentico, in cui la storia scorre fluida affrontando il difficile tema dei rapporti familiari, in bilico tra le certezze del protagonista e la voglia di imparare a perdonare. Una storia d’Amore di particolare purezza, narrata con semplicità per arrivare in fondo al cuore del lettore.

2° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Perdonate l’emozione

Abbandono la razione, spazio alla fantasia. Il mondo è intrappolato in un’enorme nave, non una qualunque, una nave che è magia, un posto che racchiude la mia casa, le mie strade, e tutto quello che di vero so.
Poi c’è il mare. È quello che provo, l’odore dell’amore, il sapore della verità, la melodia che ora sento, il colore della libertà, ciò che non mente mai, come il calore che provo in un abbraccio. È la vita.

Noi siamo alla riva, insieme ai nostri limiti, esorcizziamo le nostre paure, parliamo di vita, qualcuno dice “siamo liberi”, ma con o senza mura, non lo siamo, siamo spinti a distrarci da noi stessi, per diventare masse di schiavi per i falsi.
Ero nel mezzo del 2012, in un letto, non il mio, un letto qualunque. Lo stereo era acceso, il disco sussurrava appena, storie, parole tristi, ma canzoni bellissime, musiche così meravigliose, che il dolore dal quale venivano passava in secondo piano.

Urlai più forte del dolore che era dentro di me, provai quelle emozioni così intensamente da non sentirlo quasi più, il dolore. Così, con quell’odore di morte, nauseante, io non svenni, e soprattutto, non mi fermai. Iniziai il mio Viaggio.

Motivazioni

Un racconto maturo, in cui il vissuto personale fa da sfondo a un viaggio onirico che non perde mai la sua concretezza e la sua capacità evocativa. L’autore dimostra un’ottima capacità di utilizzare i simboli e di rielaborare artisticamente la propria storia. Efficace nel visualizzare la forza catartica della musica.

3° classificato
sezione “Adulti”

Parafrasi di un lutto diversamente elaborato

“Casa mia è!” gridai, mentre tentavo di passare attraverso le sue gambe. Lo sbirro si piegò su di me e, prima che potessi fargliela in barba, mi afferrò per la cinta dei pantaloni e mi sollevò di peso in aria.
Non dandomi per vinto, cominciai a dimenarmi e a urlargli contro tutte le parolacce che a quel tempo formavano il mio scarno vocabolario. Smisi di farlo solo quando ci raggiunse mia mamma, che aveva sentito le urla. Era pallida come un cencio, gli occhi vitrei e arrossati di lacrime.

Lei mi pregò di smetterla, poi mi voltò verso di sé e mi abbracciò forte mentre mi sussurrava che papà questa volta non sarebbe più tornato a casa.

La consapevolezza che io non avrei mai stretto la mano che mi aveva reso orfano, anche solo per rispetto alla memoria di mio padre, mi rendeva incapace di capire come Nannino Vici potesse farlo. Se fosse stato per me, avrei tagliato quella mano assassina del mio sangue e l’avrei portata al collo come amuleto; non mi avrebbe quindi sorpreso se lui avesse immaginato di fare la stessa cosa con me; ritenevo anzi che avessimo lo stesso diritto di meditare vendetta. L’idea che potesse rinunciarvi acuiva la mia diffidenza.

Fin da quando ero giovane a rendermi forte era stato il rancore dei miei nemici, ancora di più del mio nei loro confronti, e questo ragazzo, privandomi del suo, mi costringeva a trattarlo senza l’indifferenza e la malizia che avrei voluto. Era la peggiore delle condanne per me, visto che avevo usato l’idea del suo disprezzo per alleggerire la mia coscienza.

Motivazioni

Un racconto dal forte impatto emozionale, che elabora le ragioni della vendetta con persuasiva concisione, per poi sviluppare in maniera articolata, profonda e personale il tema del perdono. Salvatore Torre realizza una storia intrigante, avvincente ed evocativa, oltre a dimostrare una grande capacità di analizzare i sentimenti e farli vivere al lettore.

3° classificato sezione
“Minori e giovani adulti”

C’è Anna

In un attimo puoi distruggere la vita e forse non ne basterà un’intera per ripararla. Anna ora è sposata, ha due figli e un uomo che non la merita.

“Totò, ma chi è stà guagliona?”
“È Anna, la figlia di Antonia”
“Ma pcchè Antonia ten nata figlia femmena?”
“E pcchè non o sapiv?”
“No, nun l’aggij maij vista!”
“Essa nun è com’ a lat’, è na purosangue”
“In che sens, Totò?”
“Ca nun è na…”
Appoggiai le spalle al muro e alzai gli occhi al soffitto, sorridendo. Totò mi conosceva bene, sapeva della nomea di “sciupafemmene”.

Motivazioni

Spontaneo e diretto, Raffaele Amabile delinea una storia sentimentale sullo sfondo della delinquenza a Scampia. Il contrasto genera un piccolo effetto di umorismo sotterraneo di notevole qualità.

Menzione speciale

Deja vu

Lui è lì; ha abbassato la maniglia e ha varcato la soglia. Me lo immagino: la sua figura immensa e mostruosa, imponente e adrenalinica. Presto quei gesti pacati e innocui lasceranno il posto agli incubi.
Una mano ruvida e callosa mi carezza lo stomaco. Rasposa come una lingua felina. Ho imparato, col tempo, che ogni tipo di movimento io faccia può far degenerare la situazione. D’altronde, lui mi preferisce così: inerte.

È tornato. Speravo che tornasse; che ciò che sta per accadere, avvenga.
Gongolo e tremo di adrenalina. Avverto la puzza di vino mista a bile insinuarsi dalle fessure della porta di camera mia. Oggi quell’odore ha un profumo diverso, di rivalsa.
Una risata isterica dopo un rigurgito dormiente. Tiro la coperta sopra di me. Cercando di nascondere al meglio il manico del coltello che fa capolino da sotto il cuscino. Mi convinco che potrò farcela. Ogni muscolo del mio corpo è teso allo spasimo e brama vendetta. Lui è lì, ha trovato la porta socchiusa e nella penombra mi pare di scorgere un ghigno di soddisfazione sul suo volto. Trattengo il fiato e chiudo gli occhi. Farò a meno del rifugio, questa notte.

Motivazioni

Per aver saputo bilanciare il livello della realtà – crudele e agghiacciante – con quello onirico che conduce a inaspettati colpi di scena.

Menzione speciale

U sangu faci u murmuru

Paolo rimase con gli occhi chiusi. Tutto ciò che aveva vissuto faceva parte di un copione scritto da secoli, che chiunque altro, al posto suo, avrebbe dovuto recitare fedelmente. A iniziare da quei fuochi d’artificio con cui suo padre, il fratello del capobastone della zona, aveva annunciato a tutti la nascita tanto attesa del figlio maschio, un altro uomo che avrebbe dovuto onorare la famiglia; botti di buon augurio che avevano già segnato la sua strada di malasorte. Nelle orecchie riecheggiavano le parole che avevano accompagnato la sua infanzia, ripetute puntualmente dalla madre e dalle sorelle maggiori ogni volta che un parente veniva ammazzato. Poche parole pronunciate come un grido di dolore, poi una cantilena angosciosa che ti entra nel cervello e non ti lascia in pace, come le anime che non avrebbero avuto riposo prima della vendetta: “Sangu chiama sangu… U sangu faci u murmuru… Sangu chiama sangu…”

Motivazioni

Per aver raccontato con capacità introspettiva l’epopea della vendetta e la difficile elaborazione del pentimento.

Menzione speciale

La casa del Padre

Elias, attraverso un lento processo di gemmazione spontanea e al continuo contatto con la personalità della madre, formava il suo carattere e il suo fisico.

A quindici anni il suo corpo era forte e sano e aveva preso possesso dei suoi sensi. Sospinto dal silenzioso assenso della madre, cominciò a seguire suo padre in campagna. “Questo figlio”, pensò la donna, “è fatto della mia stessa pasta e non tarderà a far rispettare i nostri beni che fino a oggi sono stati a disposizione di chi voleva prenderseli”.

Per prima cosa imparò a camminare in aperta campagna e fu bello riuscire a tenere il passo del padre senza stancarsi. Si trattava di sentirsi nello stesso tempo leggeri e pesanti. Leggeri, perché non si doveva gravare con il proprio corpo sulle gambe, e pesanti perché si dovevano sentire i piedi come qualcosa su cui poggiare sicuri.
E poi, saper usare gli occhi! Sì, perché per camminare come un uomo, bisognava imparare a osservare e valutare sia le cose vicine sia le cose lontane, segnali o avvertimenti di possibili percorsi e di probabili pericoli.

Motivazioni

Per aver descritto il mondo barbaricino, mescolando la realtà ai miti legati alle tradizioni locali, creando un effetto letterario di grande forza comunicativa.

Menzione speciale

Mi sento petaloso

Le vacanze stanno per finire e bisogna approfittarne, le strade di Napoli in questi giorni sono piene di gente. Prendo la moto, una Honda Transalp, ma non metto il casco, perché a Napoli di notte è meglio girare senza casco piuttosto che farsi ammazzare per una svista. Abito in una piccola stradina di periferia al rione Traiano. Mentre cammino incrocio una pattuglia dei carabinieri a fari spenti. Penso “stasera non mi va di giocare a guardie e ladri”, meglio che mi sposti dal rione.

Sento la sirena di un’ambulanza, voci concitate, sembrano tutti impazziti. Odo parole del tipo: “È morto, l’hanno sparato, era un bravo ragazzo”. Incontro un mio amico, lo fermo e gli chiedo cosa sia accaduto. “Un carabiniere ha speronato un gruppo di ragazzi facendoli cadere, poi ha esploso un colpo. Uno è finito al Pronto Soccorso”.

Gente che di notte cammina armata per difendersi dal nemico, imbottita di alcool, droga, cocaina, che si esalta mettendo in mostra la forza, sparando in aria o contro i bidoni della spazzatura, e che se sgarri ti punisce. Gente che non è capace di perdonare.

La vita vale poco nelle periferie di Napoli. Si muore per un’offesa, per frequentare la donna sbagliata, la donna del boss del quartiere.

Motivazioni

Per aver saputo raccontare come, a volte, le origini condizionino la vita ancor più delle azioni stesse.

Autori finalisti e Tutor

I finalisti della sezione Adulti

gli autorii tutor
“OLGA AMOSOVA”Silvana Mazzocchi
ADELMO BATTISTINIMassimo Lugli
ANTONELLO CARRAROGloria Satta
BIAGIO CRISAFULLIPino Corrias
“FANFARÙ”Cinzia Tani
FRANCESCO FUSANORoberto Pazzi
STEFANO LEMMARicky Tognazzi e Simona Izzo
MICHELE MAGGIOSandro Ruotolo
GIANLUCA MIGLIACCIOAntonio Pascale
MARIO MUSARDOMarco Buticchi
“OSSUMI”Marco Franzelli
SEBASTIANO PRINOEmilia Costantini
MASSIMO ARMANDO RAGANATOBianca Stancanelli
GIUSEPPE RAMPELLOMogol
SALVATORE TORREAlessandro D’Alatri
“ZAZZA”Paolo Di Paolo

I finalisti della sezione “Minori e giovani adulti”

gli autorii tutor
ANTONIOErri De Luca
BUTTERFLYCostanza Quatriglio
HIT MANCarolina Raspanti
JOSEFHAndrea Vianello
LETIXIAFiamma Satta
MATTIAAndrea Purgatori
RAFFAELE AMABILEFederico Moccia
VALIAGuido Barlozzetti
UNKNOWNLuca Barbarossa

La Giuria

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Riconoscimenti

Al Premio Letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” 2016 è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica

PATROCINI: Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Rai – Radio televisione italiana.

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Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio