Il Libro

MALA VITA
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Link di acquisto: Amazon

Camminano tutti allo stesso modo, quasi mai al centro degli interminabili corridoi. Le braccia penzolano lungo i fianchi, gli sguardi sono sfuggenti. Quando parlano, se fosse possibile togliere il sonoro, penseresti che si esprimano tutti nella medesima lingua.
Faccio caso a questi particolari quando uno di loro, che sta lì da più di trent’anni, me lo fa notare.
I movimenti delle labbra sono l’aspetto più curioso. L’ergastolano sostiene che in carcere si usino sempre gli stessi termini, per parlare sempre delle stesse cose.
Trovo improbabile ma affascinante la sua tesi. Non mi aspettavo un simile spirito di osservazione. Invece, chi vive a lungo dentro una cella, lo acuisce al punto da cogliere dettagli per altri invisibili.
Più si frequenta il carcere, più ci si scopre impreparati. E si comprende anche leggendo i racconti dei detenuti e delle detenute che hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza. Quattrocento. I migliori si trovano in questo libro.
Hanno scritto da tutta Italia, con una folta rappresentanza di stranieri. Il loro italiano stentato (ma non sempre) è una pennellata di colore, capace di restituire immagini di uomini rinchiusi, di vite segnate (quasi predestinate), di fughe dai tanti paesi dove l’Italia sembra un miraggio e per la quale si rischia anche la morte, pur di raggiungerla.
Colpisce il racconto del giovane marocchino che affronta il viaggio della speranza a bordo di un gommone. E’ assieme ai genitori, ma arriva solo. Il dopo, per lui, sarà tutto in salita. Il suo italiano è semplice e contaminato dal francese ma suggestivo. Abbiamo volutamente lasciato i “ki” al posto dei “chi” o le “vagues” per indicare le “onde”, perché, leggendo, sembra di sentirlo parlare con quella dolce inflessione.
La mamma egiziana, invece, racconta del Nido Blu. Nido, perché è il luogo dove stanno i bambini. Blu, perché le sbarre sono dipinte di quel colore. E’ il nido dentro il carcere. L’idea fa rabbrividire ancor più quando leggiamo le sue parole: “Ricordo che volevo dargli un bacino, non si poteva, hanno messo una rete, ho infilato le dita cercando di accarezzare il suo visino, ma mi sono dovuta accontentare di toccare le sue dita infreddolite”.
C’è sofferenza in tutti i racconti, ma qualcuno si spinge a descrivere l’aspetto ironico di alcune situazioni. Il boss di una borgata romana, in cella con due detenuti stranieri, offre all’autore lo spunto per un dialogo sulla profezia che il protagonista – e lui solo – intravede nella lettura delle carte. La conclusione è amara ma ci strappa un sorriso.
La latitanza e l’arresto sono comuni a chi vive nell’illegalità, ma acquista un sapore diverso se lo racconta una ragazza anarco-insurrezionalista o l’appartenente a una cosca mafiosa. In questo libro troviamo entrambi.
Com’è diventato narcotrafficante di un cartello boliviano, lo spiega l’inquilino di un carcere romano. La sua spavalderia si spegne all’istante il 20 settembre del 2001. “Una data che non avrei scordato per il resto della mia vita”, scrive.
C’è il rom “nato per fare il ladro”. E Luciano che chiede di essere chiamato Lucia, perché tale si sente, disperatamente. Le sevizie subite, all’interno di una famiglia di camorristi, lo/la portano a scrivere: “Gli agenti della polizia penitenziaria sono la mia famiglia acquisita”.
Un collaboratore di giustizia racconta senza indugi il suo passaggio alla criminalità organizzata – “Cominciai a sedermi al tavolo intorno al quale si decideva perfino della vita e della morte dei nostri avversari”- e poi il difficile viaggio di ritorno che sta tentando di compiere.
I detenuti di lungo corso sembrano sentire il richiamo delle origini, ed ecco che la loro terra diventa il centro dei ricordi: una Sicilia assolata e appagante di odori, una Sardegna primordiale sono teatro delle loro gesta. E’ la strada, invece, il territorio di caccia di due giovani tossicodipendenti che si prostituiscono per sbarcare il lunario.
C’è persino il racconto di un liberiano che ci catapulta in Liberia, dove un bambino soldato, insieme ad altri come lui, spara sulla gente dei villaggi perché così ordina “capitan Terror”, perché così hanno fatto con la sua famiglia, sterminata.
Di ragazzini della nostra Italia sono le storie giunte dagli istituti di pena o delle comunità che accolgono i minori. Da quest’anno il Premio Goliarda Sapienza ha voluto dedicare una sezione ai più giovani. Benché la devianza e il disagio siano al centro delle storie, quello che rimane a noi lettori è l’immagine di adolescenti con la voglia di normalità. Di amore, soprattutto.
I loro racconti, che descrivono con disincanto scene degne di un film – rapine, spaccio, furti, fughe, arresti, – ne rivelano anche tutta la fragilità e inducono in noi, negli adulti, riflessione, ma anche imbarazzo per l’inadeguatezza di fronte al fenomeno della devianza minorile, in continua ascesa.
“La seconda volta che sono stato arrestato è stata e sarà anche l’ultima”, conclude uno dei nostri giovani autori. E’ una mano tesa, la sua. Sta a noi afferrarla.

MALA VITA
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

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Camminano tutti allo stesso modo, quasi mai al centro degli interminabili corridoi. Le braccia penzolano lungo i fianchi, gli sguardi sono sfuggenti. Quando parlano, se fosse possibile togliere il sonoro, penseresti che si esprimano tutti nella medesima lingua.
Faccio caso a questi particolari quando uno di loro, che sta lì da più di trent’anni, me lo fa notare.
I movimenti delle labbra sono l’aspetto più curioso. L’ergastolano sostiene che in carcere si usino sempre gli stessi termini, per parlare sempre delle stesse cose.
Trovo improbabile ma affascinante la sua tesi. Non mi aspettavo un simile spirito di osservazione. Invece, chi vive a lungo dentro una cella, lo acuisce al punto da cogliere dettagli per altri invisibili.
Più si frequenta il carcere, più ci si scopre impreparati. E si comprende anche leggendo i racconti dei detenuti e delle detenute che hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza. Quattrocento. I migliori si trovano in questo libro.
Hanno scritto da tutta Italia, con una folta rappresentanza di stranieri. Il loro italiano stentato (ma non sempre) è una pennellata di colore, capace di restituire immagini di uomini rinchiusi, di vite segnate (quasi predestinate), di fughe dai tanti paesi dove l’Italia sembra un miraggio e per la quale si rischia anche la morte, pur di raggiungerla.
Colpisce il racconto del giovane marocchino che affronta il viaggio della speranza a bordo di un gommone. E’ assieme ai genitori, ma arriva solo. Il dopo, per lui, sarà tutto in salita. Il suo italiano è semplice e contaminato dal francese ma suggestivo. Abbiamo volutamente lasciato i “ki” al posto dei “chi” o le “vagues” per indicare le “onde”, perché, leggendo, sembra di sentirlo parlare con quella dolce inflessione.
La mamma egiziana, invece, racconta del Nido Blu. Nido, perché è il luogo dove stanno i bambini. Blu, perché le sbarre sono dipinte di quel colore. E’ il nido dentro il carcere. L’idea fa rabbrividire ancor più quando leggiamo le sue parole: “Ricordo che volevo dargli un bacino, non si poteva, hanno messo una rete, ho infilato le dita cercando di accarezzare il suo visino, ma mi sono dovuta accontentare di toccare le sue dita infreddolite”.
C’è sofferenza in tutti i racconti, ma qualcuno si spinge a descrivere l’aspetto ironico di alcune situazioni. Il boss di una borgata romana, in cella con due detenuti stranieri, offre all’autore lo spunto per un dialogo sulla profezia che il protagonista – e lui solo – intravede nella lettura delle carte. La conclusione è amara ma ci strappa un sorriso.
La latitanza e l’arresto sono comuni a chi vive nell’illegalità, ma acquista un sapore diverso se lo racconta una ragazza anarco-insurrezionalista o l’appartenente a una cosca mafiosa. In questo libro troviamo entrambi.
Com’è diventato narcotrafficante di un cartello boliviano, lo spiega l’inquilino di un carcere romano. La sua spavalderia si spegne all’istante il 20 settembre del 2001. “Una data che non avrei scordato per il resto della mia vita”, scrive.
C’è il rom “nato per fare il ladro”. E Luciano che chiede di essere chiamato Lucia, perché tale si sente, disperatamente. Le sevizie subite, all’interno di una famiglia di camorristi, lo/la portano a scrivere: “Gli agenti della polizia penitenziaria sono la mia famiglia acquisita”.
Un collaboratore di giustizia racconta senza indugi il suo passaggio alla criminalità organizzata – “Cominciai a sedermi al tavolo intorno al quale si decideva perfino della vita e della morte dei nostri avversari”- e poi il difficile viaggio di ritorno che sta tentando di compiere.
I detenuti di lungo corso sembrano sentire il richiamo delle origini, ed ecco che la loro terra diventa il centro dei ricordi: una Sicilia assolata e appagante di odori, una Sardegna primordiale sono teatro delle loro gesta. E’ la strada, invece, il territorio di caccia di due giovani tossicodipendenti che si prostituiscono per sbarcare il lunario.
C’è persino il racconto di un liberiano che ci catapulta in Liberia, dove un bambino soldato, insieme ad altri come lui, spara sulla gente dei villaggi perché così ordina “capitan Terror”, perché così hanno fatto con la sua famiglia, sterminata.
Di ragazzini della nostra Italia sono le storie giunte dagli istituti di pena o delle comunità che accolgono i minori. Da quest’anno il Premio Goliarda Sapienza ha voluto dedicare una sezione ai più giovani. Benché la devianza e il disagio siano al centro delle storie, quello che rimane a noi lettori è l’immagine di adolescenti con la voglia di normalità. Di amore, soprattutto.
I loro racconti, che descrivono con disincanto scene degne di un film – rapine, spaccio, furti, fughe, arresti, – ne rivelano anche tutta la fragilità e inducono in noi, negli adulti, riflessione, ma anche imbarazzo per l’inadeguatezza di fronte al fenomeno della devianza minorile, in continua ascesa.
“La seconda volta che sono stato arrestato è stata e sarà anche l’ultima”, conclude uno dei nostri giovani autori. E’ una mano tesa, la sua. Sta a noi afferrarla.

I Vincitori

1° classificato
sezione “Adulti”

Pure in galera ha da passa’ ‘a nuttata
di Giuseppe Rampello

Il carcere è, di fatto, un’astronave… Antonio è uno di quelli che, quando gli tocca, sale a bordo: è un detenuto a intermittenza, un passeggero pagante.
[…]

Oltre metà dei suoi cinquantatré anni li ha trascorsi nelle patrie galere, che ormai considera la sua seconda casa, ovunque abbiano sede.
[…]

… Andatura tipo Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco… le braccia “affrescate” di tatuaggi… dai tradizionali “cinque punti della mala”… a nudi di donna frammisti a madonne e velieri… sul torace, in una selva di peli, spicca il gigantesco disegno che gli dà il nome d’arte, er Cobra!
[…]

Già nella Rotonda gli urli di saluto che gli arrivano dalle varie sezioni fanno inorgoglire Antonio…
(Un detenuto) «Aho, a Cobra, tutt’a posto?…».
(Antonio) «…tutt’a posto! Mo’ me sistemo…».
[…]

In un paio di giorni, con opportuni spostamenti a catena… approda alla tanto amata cella…Ma stavolta scopre che già c’è un pezzo da novanta, Rocco detto “er Berluschino der Trullo” … Con lui Catalin, il romeno, e Abdullah, il marocchino. Antonio capisce che dovrà accettare di occupare il secondo posto nella gerarchia…
[…]

Anche lui è dentro per una valanga d’imputazioni che spaziano nell’intero codice penale… Comunque, delle conseguenze giudiziarie, si preoccupa poco: gli stanno scadendo i termini di custodia cautelare per cui, a breve, dovrà essere…
[…]

Rocco prende un mazzo di carte napoletane… È buffo che un duro come lui sia così dipendente dai segni del destino…
[…]

Le mischia solennemente e inizia a disporle sul tavolino.
Asso di coppe.
(Rocco) «Asso de coppe… asso de coppe… ah, sì: donna!… uhm… donna?!? Ah… sì, … donna! Certo, è mì moje, chiaro, no?».
Sei di spade.
(Rocco) «Sei de spade… er sei de spade… avvocato! … Uhm… avvocato?!? Aho, e che ce vo’? È chiaro, no? ‘A donna: mi’ moje! L’avvocato: vor dì mi’ moje che va dall’avvocato e je parla, parleno de me. Hai capito come?».
Re di denari
(Rocco): «Re de denara, re de denara… Ecco, è er giudice! … Er giudice?!? Ma certo, è chiaro! Mì moje va dall’avvocato… l’avvocato va dar giudice e je parla de me. Aho, ‘e carte nun menteno mai! ‘E carte so’ sempre ‘n presagio: guarda com’hanno propio centrato ‘a storia mia!».
Entusiasmo di Rocco, che continua a disporre le carte con solennità.
Sette d’oro.
(Rocco) «Sette de denara… er sette bello! Er massimo!…».
Sorrisi ironici di Adbullah e Catalin, mentre Antonio pensa “ha da passà ‘a nuttata, ma speriamo che passi presto!”.
Rocco, con aria trionfante, posa le carte.
(Catalin) «Zio Rocco, fermi qui tue carte?».
(Rocco) «A Catalinne, e che je devo chiede ancora… quello che me doveveno di’, me l’hanno detto, er presagio me l’hanno dato, no?…».
(Catalin): «Zio Rocco, tu dai carte, leggi che dicono carte, tu fai tutto da solo…».
(Rocco): «…mò te dimostro che pure se le dai tu, ariescheno ‘e stesse pure senza ‘a mano mia!».
Mischiata delle carte e stavolta Rocco incarica Catalin di gestire il mazzo.
Due di bastoni.
(Rocco): «Due de bastoni… due de bastoni: donna! È mi’ moje!».
(Abdullah): «Zio, ma prima la donna era l’asso…».
(Rocco): «… allora sei tarato! … ‘E carte vanno capite, ma tu nun capisci gnente de gnente. ‘Namo, Catalinne, continuamo, e lassamo perde ‘sto talibano…».
[…]

Finalmente arriva il giorno diciotto…
In tasca santini vari, due corone del rosario, la foto della madre defunta incollata dietro al santino di Padre Pio, ma, principalmente, dentro di sé, l’incrollabile convinzione che tornerà davvero a casa.
La sera torna molto più tardi di tutti gli altri andati in causa quel giorno. Però, si sa, la Corte d’Assise è la Corte d’Assise, e sta al bunker di Rebibbia…
Antonio, Catalin e Abdullah muoiono di fame, avendo aspettato il suo ritorno per mettersi a friggere la pietanza tipica delle grandi occasioni: petti di pollo fastosamente panati due volte…
Rocco entra in cella scurissimo in volto, non saluta e non dice nulla.
Gli altri tre si adeguano…
[…]

Rocco va in bagno a lavarsi. Torna più nero di prima….
(Rocco urla) «Mannaggia voi, mannaggia a voi che so’ giorni che gufate, che me guardate strano! … Dodici anni m’hanno dato… dodici anni e pure du’ anni de sorveglianza speciale! Mannaggia a voi e a quanno v’ho conosciuti!».
[…]

Motivazioni

Racconto ben costruito, con largo uso del dialogo e del dialetto che rendono la narrazione veloce e coinvolgente. Senza perdere il senso di tragicità, la vita carceraria viene mostrata nella sua evidenza e con tinte di leggerezza e d’ironia. Il momento in cui un gruppo di detenuti di nazionalità diverse si stringe intorno a un mazzo di carte per leggervi il destino, è uno spunto ben riuscito per un’amara metafora dell’esistenza. Fa pensare a un certo teatro di Eduardo De Filippo, alla tensione vigilata del cinema dei Taviani.

1° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

La seconda volta
di Gugli

Apro gli occhi, il suono del campanello di casa mi ha svegliato. Non faccio in tempo a scendere dal letto che una corazzata invade la mia cameretta: sono i miei amici.
[…]

Il tempo di vestirmi, di farmi bello, una guardatina allo specchio e siamo in strada.
Fuori c’è un sole splendente, l’aria è fresca… In sella! Cavalchiamo i nostri motorini, due su ognuno, si parte. Destinazione: le vie di Napoli.
… Clacson, sirene, gente che va… nacchere e tarantelle. Il mondo vive in questa città.
[…]

«Vieni o no?».
«Vengo, basta che stai calmo».
«F’ambress».
Siamo in strada, l’amico sfreccia tra le macchine a zig zag. Si dirige verso via Francesco Girardi, noi dei Quartieri la conosciamo come Magnicavalli… Poi scende per la Medina…Ora capisco…
«Aspettiamo, vediamo se scende qualcuno e, se ci piace, organizziamo».
[…]

…una coppia… Sul polso dell’uomo brilla un Rolex Daytona… La preda c’è.
[…]

Un avvicinarsi furtivo di voci, passi, una frenesia, un caos senz’arte… l’uomo cade… la moglie grida… L’orologio è nelle nostre mani…
«Fuje, fuje!», davanti la luce e dietro il buio. Metto il turbo ai piedi. Dileguati in pieno giorno come nel cuore della notte.
[…]

Questo mi ritrovo a essere, uno che scappa…
[…]

Il settimo giorno Dio si riposò, io sono stato arrestato. Sette giorni di latitanza, solo nel buio dei miei giorni, lontano da chi ti viene a cercare…
Nessuno deve sapere: mamma non deve sapere, nonna non deve sapere… ma tutti sanno…
A diciassette anni arrestato per la seconda volta.
[…]

Sono stato condannato a due anni di reclusione ed è stato deciso il mio inserimento in comunità, destinazione Salerno.
[…]

Ho intrapreso diverse attività che mi hanno dato la possibilità di capire che non esiste solo rubare, scippare, minacciare…; si può migliorare, crescere, imparare a stare al mondo e a non considerare gli altri un nemico da depredare…
[…]

Io, Edipo a Salerno, in cerca di me stesso. È nata una passione. La faccia l’ho sempre avuta, sì, perché ho un volto tragicomico…
…ho iniziato a fare teatro.
[…]

Sono immerso nella lettura tutti i giorni: tragedie, drammi e commedie, Sofocle, Shakespeare e Molière. “Essere o non essere”, ho deciso di essere quel che ora sono, uno scugnizzo lontano dai guai.
[…]

Motivazioni

“Racconta la presa di coscienza di un giovane scippatore che riesce a opporsi al proprio destino di trasgressione grazie al teatro, alla scoperta di una vocazione, alla gioia provata sulla scena. La prova ulteriore di quanto l’arte e l’impegno per esprimerla possa giovare a una nuova consapevolezza”.

2° classificato
sezione “Adulti”

Alla ricerca del vento
di Paola Francesca Iozzi

[…]
C’eravamo fermate per prendere un caffè e rinfrescarci. Eravamo in viaggio da un po’ e il posto sembrava innocuo, piuttosto vuoto, e sarebbe rimasto indifferente alla nostra presenza. Appoggiata al bancone, guardo la macchina parcheggiata nello spiazzo. La nostra è l’unica. Ce ne sono un paio, ma si vedono appena, parcheggiate al lato dell’edificio. Una volante dei carabinieri arriva lungo la strada, rallenta, svolta ed entra nel piazzale. Sono in due. Scendono. Uno rimane accanto allo sportello aperto. Parla alla radio.
Ho caldo.
L’altro si guarda intorno, si ferma sulla macchina a fianco: la nostra. Comincia a ispezionarla: il parabrezza, la targa, dà un paio di calci alle gomme, dal finestrino aperto infila la testa e spia dentro. Si volta verso il collega, quello posa la radio, parlano. S’infila un dito tra il gozzo e la camicia stretta. Gira il capoccione con una smorfia d’insofferenza. Si raddrizza in una specie d’attenti, incrocia le mani sotto la pancia gonfia, guarda a destra, a sinistra, poi fa cenno al collega di entrare.
[…]

Non mi sento tranquilla. Che sia una trappola? Ma perché? Eppure nessuno ci ha chiamate qui e la macchina non è neppure rubata. Che ci seguissero? Me ne sarei accorta. Credo. Si avvicina al bancone. Ci sono solo io in piedi che aspetto il caffè. Lea è ancora in bagno. Il vecchio mi guarda divertito. Che c’entri anche lui? È stato lui ad avvisarli? O la signora grassa che a bassa voce discorre agitata all’orecchio del barista? Non ho detto a nessuno che me ne sarei andata, nessuno conosce la mia strada. Che Lea abbia commesso un’imprudenza? O sono stata io? Non sarei dovuta andare dai miei prima di partire.
[…]

«Signorina … signorina? Sembra pallida … tutto bene?».
L’uomo in divisa è a un palmo da me, mi guarda, mi afferra per un braccio. Scatto. Mi libero dalla presa.
«Tutto bene?»
[…]

«Sembra pallida».
Dove vuole arrivare? Cosa vuole? Un passo falso? Arrestarmi? Non ha controllato dove fosse Lea. Mi crede sola? Comincio ad avere qualche dubbio sulle sue intenzioni. Se avesse avuto l’ordine di arrestarmi lo avrebbe fatto.
«È il caldo. Cali di pressione». Il cuore sta per saltarmi fuori dal petto, e l’aria invece non entra.
«È sua la macchina qua fuori?».
[…]

Il sangue mi si gela nelle vene, mi paralizza l’idea di tradirmi. Sento i miei occhi spalancati fissi sulla faccia di quel carabiniere e mi sorprende vedere una faccia da uomo.
Continuo a parlare, non riesco a sentirlo, mi concentro per fingere qualcosa che possa essere scambiato per rispetto o pudore.
La porta alle mie spalle si apre. È Lea che esce dal bagno, mi volto e la vedo impallidire. Balbetta qualcosa. Non capisce cosa sta succedendo. In realtà neanche io.
«Stai meglio? Sei ancora pallida. Va in macchina, ora arrivo».
Mi passa accanto, piccola e confusa, gli occhi sbarrati. Sulla porta vede l’altro carabiniere di piantone accanto all’auto.
[…]

«Beva, le si fredda».
Non lo ha interessato la mia distrazione.
«Il caffè lasci, glielo offro io». Provo a fare un sorriso. Ci riesco. Lo so perché la nausea mi stringe la gola. È un caffè cui ci si può piegare solo in differita: non nei cortei, non durante un arresto, un interrogatorio, un pestaggio, un pedinamento, un omicidio, il funerale di un compagno.
Poco dopo ero di nuovo in macchina.
Lea non parlava, guardava fuori dal finestrino e sentiva che ero nervosa, arrabbiata. Preferivo che fossimo al sicuro, prima di parlare e raccontarle cosa era successo. In silenzio guidavo e tenevo d’occhio lo specchietto. Volevo essere sicura che nessuno ci seguisse.
[…]

Motivazioni

Storia forte, di errori e di speranze, d’illusioni e di ripartenze. Molto ben scritta e strutturata. La scelta di due donne come protagoniste, orienta il racconto verso originali ed estreme forme di solidarietà femminile.

2° classificato
sezione “Minori e giovani adulti”

Io ti perdono
di Zapat

[…]

La mattina di capodanno mi svegliai in una casa e non sapevo dove mi trovavo. Mentre mi stavo mettendo le scarpe si avvicinò una ragazza con una vestaglia verde pistacchio e mi disse: «Tu sei un amico di mio fratello Genny?».
Io subito le risposi di sì e lei: «Genny sta ancora dormendo, ti va di mangiare qualcosa?».
«Sì, come ti chiami?».
Lei si tolse la vestaglia e sulla pancia aveva tatuato il suo nome: Malica. Subito pensai che le piacevo, ma pensai anche a Genny…
[…]

Mentre lo accompagnavo al Vomero, lui mi chiese per la seconda volta se volevo essere suo amico.
«Ma sei gay?» gli chiesi.
Iniziò a ridere: «Perché, ti sembro un gay?».
«Sì».
«Ti sbagli, mi piacciono solo le donne. Allora, vuoi essere il mio amico? Anzi, il mio migliore amico?».
[…]

…mi fece conoscere la sua famiglia. La sorella mi venne vicino con un bicchiere di spumante: «Facciamo un brindisi?».
«Perché no!?!».
Genny stava con una ragazza: «Dai, brindiamo tutti e quattro insieme».
Dopo ce ne andammo a divertirci io, lui e due amiche sue. Eravamo in macchina, diretti a un locale. Lì Genny tirò fuori una busta con dentro cocaina, la mise sullo specchio, fece quattro strisce e me la passò…
Dopo ci siamo messi a bere come matti, a ballare sui i tavoli e le ragazze che stavano con noi erano gelose delle altre che si avvicinavano. Una mi prese e mi baciò. Io non sapevo cosa fare e continuai a baciarla.
[…]

Dopo un po’ che ci conoscevamo Genny mi chiamò e chiese: «Ti va di lavorare con me in pizzeria? Mio zio ha già detto di sì».
[…]

…conobbi una ragazza. Si chiamava Ilaria. La portai prima al cinema e dopo a Mergellina, a mangiare un gelato…
Si vedeva che era una ragazza di casa, non sapeva neanche baciare. «Per me sei il primo ragazzo». Io le volevo insegnare, lei mi disse di sì e da quel momento m’innamorai di lei.
[…]

Finì che facemmo l’amore e lei uscì incinta
[…]

Dopo otto mesi e ventisette giorni Ilaria partorì e mi diede un bel principino. Lo presi in braccio e subito lo chiamai Zapat, il nome che mi piaceva da bambino…
Genny appena lo seppe corse all’ospedale e portò con sé un cuore celeste…
[…]

Un giorno venne a casa mia e mi disse: «Ho un colpo fra le mani».
… accettai, anche se misi subito in chiaro che sarebbe stata la prima e l’ultima volta.
Mentre stavamo facendo una rapina arrivò la polizia e ordinò a Genny di arrendersi. Io non volevo che lo arrestassero e iniziai a fare il far west e a sparare contro le macchine per scappare via. Salimmo su una motocicletta, io ero alla guida. Due macchine dei carabinieri ci tallonavano ma io riuscii a seminarli, poi feci scendere Genny, così i poliziotti inseguivano me soltanto. Dopo due giorni, però, lo arrestarono e sul giornale scrissero anche il mio nome…
Io non volevo credere a quello che leggevo.
[…]

Motivazioni

Con scrittura fresca e originale, si racconta qui dell’amicizia di due giovani nella società degradata della periferia napoletana, così simile a ogni altra realtà periferica ed emarginata: impasto di valori bugiardi, di desideri sbagliati, di falsi scopi. Qui l’amicizia ha la meglio, anche dopo il tradimento.

3° classificato
sezione “Adulti”

I bambini del nido blu
di Nezha Er-Raouy

[…]
La mia prima carcerazione è stata il 2 maggio 2011. Che incubo, non ero sola, c’era anche lui, il mio bambino ricciolino. La mia principessa bambina, invece, lasciata a casa con mia sorella e mia cognata.
Ci hanno portato al nido di Sollicciano, io ero un corpo che camminava senza passi, perché i piedi non mi reggevano. A sentire l’odore del mio bambino che tenevo in braccio, mi svegliavo e girandomi verso di lui gli dicevo «Amore, vuoi il ciuccio?». Non parlava, mi faceva segno di sì con la testa.
[…]

Al nostro arrivo notai che avevano fatto di tutto per renderlo un nido: cancello normale colorato di verde, disegni di cartoni animati sulle pareti, addirittura le celle preferiscono chiamarle camere, porte normali, letti normali, armadi di legno, niente ferro, solamente nelle finestre con le sbarre dipinte di blu, una cucina, una sala spaziosa, tanti pupazzi, un tavolino e delle seggioline. Ma la domanda che s’imponeva in me con insistenza era: «Ma il bambino si sente a suo agio, è contento?». Nessuno lo sa, solamente quella piccola anima fragile, innocente.
[…]

Noi mamme non facciamo altro che guardarci negli occhi, i nostri figli appiccicati a noi, mute e con una domanda in testa: perché ce li siamo portati qui?
Poveri bambini, ci sono delle regole da seguire in questo posto, ma loro che ne sanno? Alle otto di mattina aprono le porte, però c’è qualche bambino che si sveglia e non può uscire. Alle nove passa la colazione ma lui non ne ha voglia. Vuole uscire all’aria e se disgraziatamente gli scappa la pipì e fai in ritardo, salta l’aria. Quando arriva il pranzo, quanta fatica per convincerli a mangiare, una mamma guarda l’altra e tutte e due si domandano: non hanno fame?
Quei piccoli hanno un peso dentro, vogliono sfogarsi, c’è chi salta da un posto all’altro. C’è una cameretta, la chiamano “angolo morbido” dove potrebbero passare il tempo giocando, ma è sempre chiusa, la aprono quando viene la responsabile. E quando viene? Quando le pare.
[…]

I volontari del Telefono Azzurro venivano a giocare con loro, una volta li hanno portati ai giardini. Il mio ci è andato, era contentissimo, quando è tornato mi ha detto: «Mamma, mi hanno comprato il gelato».
[…]

Quei bambini seminati nel cuore dell’inverno dentro quel nido, fioriranno un giorno, ne sono certa, perché loro sanno cos’è l’amore, l’amicizia, il perdono, sanno dire scusa quando capita un litigio per un giocattolo, sanno dimenticare, sanno portare avanti la loro convivenza, il loro destino giocando. Invece noi, le grandi donne, sempre a litigare per cose banali.
Sento dei martelli che rimbombano dentro di me, sono emozioni. Lo vedo ancora il mio fiorellino fra gli altri, che gioca, altri sono ancora qui, ma non voglio interrompere il flusso dei ricordi…

Motivazioni

Una prospettiva, quella degli asili nido circondariali, mai raccontata in prima persona. Senza indulgere al patetico, l’autrice racconta l’incongruità dell’ambiente e le lacerazioni della scelta di una madre, indotta a privarsi del figlio piuttosto che costringere anche lui alla vita rinchiusa. Di grande efficacia anche la descrizione dei rapporti tra le madri della prigione.

3° classificato sezione
“Minori e giovani adulti”

Quand’ho cominciato a sbandare
di Simone Messali

[…]

Hanno portato via mio padre, io c’ero. Il nostro bar, ce l’avevamo da due anni, stavo proprio arrivando lì, come ogni pomeriggio, per rimanere un po’ e dare una mano. In piazza però qualcosa di diverso: tante macchine della polizia, i lampeggianti, gli uomini in divisa con i mitra, che ci facevano davanti al bar?
[…]

Il maresciallo ha spiegato a mia madre che doveva arrestarlo, che c’erano dei testimoni e delle foto che dimostravano che lui spacciava e prendeva soldi. Insomma che c’erano le prove.
[…]

Quand’ho cominciato a sbandare?
Ecco, forse ho cominciato proprio quell’anno, alla fine dell’estate.
[…]

…cose piccole, furtarelli: i portafogli in discoteca, il navigatore nelle macchine, lo stereo, cose così, poi li rivendevo e qualcosa tiravo su, ma poco, troppo poco.
Andavo anche nei garage, in uno ho trovato una macchina con le chiavi attaccate. Ero con due amici, l’abbiamo presa e subito in giro a divertirci. Che scemi! Ci ha fermato la polizia: dritti in caserma, bloccati per un sacco di ore, ci hanno preso le impronte, ma eravamo tutti al primo reato perciò ci hanno rilasciato.
[…]

Per un po’ ho rigato dritto, a scuola comunque ci andavo poco, nel frattempo ho conosciuto Roberta. Era una bella ragazza di diciassette anni, mi trovavo bene con lei e mi stavo innamorando. Quando le stavo accanto era come se tutti i miei problemi non esistessero più e pensavo, forse, di aver trovato una via di uscita da tutti i miei casini.
Una sera, uno che conoscevo mi propone di fare una rapina in casa di un signore che aveva cinquantamila euro perché aveva vinto alla lotteria.
Prima le manette, strettissime (mi è rimasto ancora il segno), poi ci fanno coprire il volto con il cappuccio della felpa. Mi domandavo perché, poi ho capito: appena usciti dalla caserma c’erano i fotografi dei giornali, sembrava un film. Ci spingono in macchina sui sedili dietro e via.
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Il giorno dell’udienza ci prendono e ci portano in una saletta. Ci sono i nostri avvocati, c’è mia mamma, mio fratello, la nonna.
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Il pubblico ministero esprime la sua opinione e chiede tre anni di carcere, ma il giudice ci manda agli arresti domiciliari e ci affida a un assistente sociale.
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Dopo sei mesi mi hanno concesso le prescrizioni, vale a dire che potevo uscire da casa e iniziare un percorso all’esterno, come volontario, alla Caritas. Era bello impegnarmi in qualcosa che mi faceva capire molto della vita, vedevo tantissima gente povera, con problemi come i miei e persino più gravi, che veniva lì a chiedere vestiti, giocattoli per i figli piccoli e anche da mangiare.
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Ho fatto quasi un anno così…
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…finché una mattina…viene a prendermi con una macchina che non avevo mai visto, ma sembra a posto.
Prima tiriamo un po’ di coca, poi partiamo in cerca di soldi, di qualcosa da rubare. Vediamo le signore passare in bici con le borse nei cestini, ci guardiamo e incominciamo l’assalto: affiancati alle bici, tiro giù il finestrino, prendo la borsa e via. Per quattro volte ripeto l’azione finché dietro di noi compare una pattuglia dei carabinieri.
Siamo fregati, la galera stavolta non ce la toglie nessuno. Ci fanno segno con gli abbaglianti, accendono la sirena e ci fanno accostare.
Il mio amico mi guarda e mi dice che la macchina non è in regola e che lui non ha la patente. Non ci credo…
I carabinieri ci chiedono i documenti, ci fanno scendere, e dai controlli si accorgono che la macchina è rubata. Poi ci perquisiscono e ci trovano molti soldi in tasca, carte di credito e telefonini. Ci chiedono conto di tutta quella roba ma noi, niente, non rispondiamo. Ci portano in caserma dove, nel frattempo, arrivano le signore che abbiamo derubato. Ci riconoscono, siamo fregati.
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Motivazioni

In questo racconto, la sbandata, termine illuminante, è descritta con dolente inevitabilità ma anche con stupore, fino all’impegno di volerne uscire. Il mondo della piccola criminalità e il calore del Sud sono qui filtrati in un’esperienza personale che si traduce in consapevolezza.

Autori finalisti e Tutor

I finalisti della sezione Adulti

gli autorii tutor
GIOVANNI ARCURIGiancarlo De Cataldo
MANE BASHKIMValerio Evangelisti
NICOLA DETTORIMassimo Lugli
ALFONSO DE LIQUORIGiordano Bruno Guerri
SEBASTIANO PRINOMarcello Fois
TONY WILD (PSEUDONIMO)Marcello Sorgi
CARMELO LA LICATAMarco Liorni
SALVATORE FRANCESCO PEZZINOMarco Buticchi
PAOLA FRANCESCA IOZZIErri De Luca
AVIELLO LUCIANO “LUCIA”Cinzia Tani
ER RAOUY NEZHALuisa Ranieri
ANTONIO GUARNIERIGloria Satta
MUSTAFA BOUSSALAHBarbara Cupisti
FRANCESCO FUSANOLuca Ricci
SALVATORE TORREGaetano Curreri
V98 (PSEUDONIMO)Andrea Purgatori
GIUSEPPE RAMPELLOPino Corrias
SALVATORE SAITTOGiuseppe Scaraffia
SALVATORE VENTURAAndrea Di Consoli
RICHMOND GOODMANRoberto Riccardi

I finalisti della sezione “Minori e giovani adulti”

gli autorii tutor
ZAPAT (PSEUDONIMO)Federico Moccia
PEPPE 92 (PSEUDONIMO)Marco Franzelli
SIMONE MESSALIFrancesco Ceniti
FRANCESCO LOPEZGiulia Carcasi
GUGLI (PSEUDONIMO)Fiamma Satta

La Giuria

Elio Pecora

Presidente della Giuria

PATROCINI: Ministero della Giustizia, DAP – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Siae – Società Italiana degli Autori e Editori, Fondazione Pubblicità Progresso.

Il Premio Goliarda Sapienza 2013 si pregia delle Medaglie che il Presidente della Repubblica ha voluto destinare quali suoi premi di rappresentanza.

PATROCINI: Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Fondazione Pubblicità Progresso, Rai Radiotelevisione Italiana.

 

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Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio