Il Libro

I sei racconti di Malafollia sono scritti dagli autori che si sono distinti nel corso delle diverse edizioni del Premio Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere. Il leitmotiv è la follia dentro le mura di un carcere. Qualcosa che tutti loro hanno visto, vissuto, toccato.
Storie di grande impatto emotivo che trascinano negli angoli più misteriosi della mente umana.
“Stai entrando nel gioco”, disse il padre a Leonardo, quando gli confidò che anche il suo mondo non era come quello degli altri. E Leonardo, dal gioco della follia, non uscì più.
Edmond, invece, ricorda che quando era piccolo faceva piccoli tagli sotto un occhio e aspettava che colasse il sangue per gridare qualcosa al mondo, ma il mondo non gli rispose mai.
Michele sta fuori dal carcere, così crede, ma le “voci” lo perseguitano e lui non sa più chi sia né come si chiami. E dove si trovi.
Patrizia rivede sé stessa, a pochi mesi, in braccio alla madre alla Stazione Termini di Roma… Occhioni verdi e sguardo intenso, Patrizia non piange quando la mamma la porge a un’altra donna dicendo “Se ne occupi, faccia la cosa giusta per lei”. Sono trascorsi ventidue anni da quel giorno e Patrizia non piange neanche da dietro le sbarre di una cella, anche se scrive “in certi momenti esce fuori il mostro che è in te”.
Il regime di Elevato Indice di Vigilanza è quello che catapultò Bastiano dalla Sardegna, alla sezione d’isolamento dell’“infame carcere abruzzese”. Se fosse rimasto un anno senza parlare con nessuno avrebbe perso l’uso della parola, così escogitò un sistema: cominciò a parlare da solo…” e mentre parlavo, mani solerti compilavano l’ennesimo rapporto disciplinare…” Meglio che impazzire.
Sesto Lario aveva imparato a urlare dentro di sé la rabbia: “Un fallito, un fallito, un fallito!” gridava contro quel destino che non gli permetteva di essere l’artefice della sua vita. Ma poteva esserlo della sua morte.

I sei racconti di Malafollia sono scritti dagli autori che si sono distinti nel corso delle diverse edizioni del Premio Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere. Il leitmotiv è la follia dentro le mura di un carcere. Qualcosa che tutti loro hanno visto, vissuto, toccato.
Storie di grande impatto emotivo che trascinano negli angoli più misteriosi della mente umana.
“Stai entrando nel gioco”, disse il padre a Leonardo, quando gli confidò che anche il suo mondo non era come quello degli altri. E Leonardo, dal gioco della follia, non uscì più.
Edmond, invece, ricorda che quando era piccolo faceva piccoli tagli sotto un occhio e aspettava che colasse il sangue per gridare qualcosa al mondo, ma il mondo non gli rispose mai.
Michele sta fuori dal carcere, così crede, ma le “voci” lo perseguitano e lui non sa più chi sia né come si chiami. E dove si trovi.
Patrizia rivede sé stessa, a pochi mesi, in braccio alla madre alla Stazione Termini di Roma… Occhioni verdi e sguardo intenso, Patrizia non piange quando la mamma la porge a un’altra donna dicendo “Se ne occupi, faccia la cosa giusta per lei”. Sono trascorsi ventidue anni da quel giorno e Patrizia non piange neanche da dietro le sbarre di una cella, anche se scrive “in certi momenti esce fuori il mostro che è in te”.
Il regime di Elevato Indice di Vigilanza è quello che catapultò Bastiano dalla Sardegna, alla sezione d’isolamento dell’“infame carcere abruzzese”. Se fosse rimasto un anno senza parlare con nessuno avrebbe perso l’uso della parola, così escogitò un sistema: cominciò a parlare da solo…” e mentre parlavo, mani solerti compilavano l’ennesimo rapporto disciplinare…” Meglio che impazzire.
Sesto Lario aveva imparato a urlare dentro di sé la rabbia: “Un fallito, un fallito, un fallito!” gridava contro quel destino che non gli permetteva di essere l’artefice della sua vita. Ma poteva esserlo della sua morte.

Prefazione

di Antonella Bolelli Ferrera

Malafollia è un libro sulla follia in carcere.  

Sei racconti scritti da chi, in quei luoghi, l’ha vista, toccata, persino provata sulla propria pelle. Quando non sono scritti apertamente in forma autobiografica (“La follia non è una malattia fisica, è un vento che trascina, e lei non può fermare il mio, e non ho più voglia di sputare la mia merda mentre lei la annota su un foglio, non voglio che paragoni la mia storia con le mille altre.”), si avverte che dietro alle storie e ai loro protagonisti, la finzione si sovrappone alla realtà e la realtà alla finzione, nel tentativo di indagare il lato più nascosto e oscuro della mente umana. Un labirinto da cui non si esce facilmente. Difficile trovare le soluzioni. Impossibile ottenere tutte le risposte quando la mente ha intrapreso un secondo cammino che viaggia in parallelo, che ha creato in te una sorta di avatar. A un certo punto non sai più chi sei veramente ( Io sono un involucro vuoto sono solo una fantasia di una mente turbata. Io sono il frutto di una malattia. Io non esisto.”).  

Follia e carcere, un binomio che pare inscindibile. Basti pensare che la maggior parte dei detenuti soffre di disturbi della personalità, quando non si tratta di veri e propri disturbi psicotici. Spesso è proprio il carcere il fattore scatenante o peggiorativo di situazioni mentali già in bilico: vivere in spazi estremamente ristretti, la perdita degli affetti, la spersonalizzazione, l’apatia sono alcune delle innumerevoli cause. Certamente queste storie ci raccontano che l’isolamento, a cui può succedere di essere sottoposti anche per anni, è una condizione che rischia di portare sull’orlo di un precipizio oltre il quale è facile cadere. E viene da chiedersi come potrebbe non essere così (“…niente suppellettili, branda e tavolino bullonati al pavimento… niente TV. Il corridoio è minuscolo, ci sono solo sei celle singole oltre le docce… Se appoggio bene la testa fra le sbarre riesco a spingere lo sguardo fino al cancello della sezione. Se tendo bene le orecchie posso sentire l’eco del vociare del carcere. Le palazzine che ospitano i detenuti comuni sono un caleidoscopio di voci e suoni in netto contrasto con il silenzio, a volte farmacologico, in cui mi trovo immerso ora.”). Chi riesce a rimanere in bilico è perché ha trovato in sé le forze, escogitando ogni mezzo, anche il più bizzarro. Proprio ai limiti della follia. (“…se fossi rimasto un anno senza comunicare con nessuno come imposto dal verdetto di condanna, avrei perso l’uso della parola…Per aggirare il divieto di comunicazione con gli altri detenuti avevo escogitato un sistema: mi affacciavo allo spioncino e cominciavo a parlare da solo…Era vero, parlavo da solo ma ad ascoltarmi erano in tanti… E mentre parlavo, mani solerti compilavano l’ennesimo rapporto disciplinare di cui il lunedì successivo avrei risposto davanti al direttore…”). 

A volte i problemi sorgono, incredibilmente, quando si avvicina il giorno dell’uscita da carcere, il momento più desiderato e sognato. Da alcuni il più temuto. E’ lì che la mente comincia a fare i capricci. L’adattamento allo stile di vita detentivo – gli orari, le regole, il modo di rapportarsi con gli altri, di parlare, di mangiare, di vestire… – diventa una seconda gabbia da cui non riesci più a uscire e che ti porti appresso. C’è chi, anche dopo molto tempo, non riesce a registrare la propria mente sui ritmi del mondo fuori. Ne ha quasi paura. O chi, palesemente, manifesta la propria nostalgia per quando era “dentro”. Un segno che qualcosa è andato storto, se non riesci neppure ad apprezzare la libertà. (“Mi manca tutto. Mancano le compagne. Mancano le risate. Mi manca cucinare e mangiare insieme al tavolino. Mi manca non trovare il caffè pronto dalla mia concellina quando torno dal lavoro. Mi manca l’unione! Mi manca condividere le stesse idee con qualcuno. Sono sola! Anzi, sono un puntino in mezzo al mondo… un numero volato via che ora, in mezzo a tutta questa gente, si sente inutile.”). 

Patrizia, Edmond, Michele, Salvatore, Sebastiano, Stefano sono i sei autori di questi racconti. Una ragazza e sei uomini. Giovani e meno giovani che vengono da esperienze (di vita e con la giustizia) diverse, nati e cresciuti in luoghi distanti tra di loro (dalle Isole al Piemonte, passando per Roma), con percorsi carcerari più o meno lunghi, ma c’è chi accanto al fine pena trova scritto mai. 

Hanno in comune la passione per la scrittura ed è questo amore che li ha portati dentro le pagine di questo libro. 

Sono fra i migliori autori emersi nei nove anni di vita del Premio letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere”. La stessa Goliarda, cui l’ho voluto intitolare, si mise in luce con un romanzo breve L’Università di Rebibbia, scritto dopo un’esperienza carceraria. 

Quest’anno, per la prima volta, gli autori non sono stati affiancati da grandi scrittori con le funzioni di tutor. Queste storie hanno viaggiato da sole. Duranti gli incontri che ho avuto con ognuno di loro, ho capito che l’ostacolo più grande non era l’attività letteraria, ma il coraggio di affrontare un lavoro d’introspezione che poteva anche rivelarsi doloroso. Ne sono scaturite pagine sincere, anche di sconcertante bellezza.  

Tra i nostri autori c’è chi, più controllato nelle proprie emozioni ha saputo osservare e descrivere in modo disincantato le ossessioni di altri abitanti del carcere (“Irritazione. Mentre guardava di sbieco quella fastidiosa massa di corpi trascinarsi avanti e indietro all’interno di quel rettangolo di cemento, nel quale espletavano la loro ora d’aria quotidiana, a Sesto Lario tornava sulla pelle questa sensazione… Ogni occasione era buona per sputare fuori il livore che provava verso quegli uomini e quella vita che lo aveva continuamente ripudiato e discriminato, che lo aveva irrimediabilmente reso un fallito. E un pluriassassino.”). C’è chi ha scelto di raccontare la follia dal suo punto di vista di osservazione come lavorante in un reparto di osservazione psichiatrica, e ha finito per amalgamarsi ai personaggi che ha incontrato fino a confondersi (forse per davvero) con loro (“Raccontare Leonardo diventò un viaggio con tante sfaccettature, con tante storie delle persone che vivono nel carcere. Ci dividono i cancelli, ma ci riconosciamo, conosciamo i nostri odori, i nostri visi, i nostri occhi, e quando ci perdiamo riusciamo a ritrovarci… Sono stato a lavorare a lungo in questo strano reparto di Rebibbia… osservando da vicino le malattie degli altri, con la paura che diventassero le mie malattie o le mie fobie.”).  

Ciascuno possiede una propria cifra stilistica che scaturisce dalla personalità, dal tempo trascorso sui libri, da quello dedicato alla scrittura… di certo, ciascuno di loro possiede i tratti dello scrittore. 

La prima factory creativa del Premio Goliarda Sapienza è nata! 

Introduzione

di Mons. Dario Edoardo Viganò

Due sono i tratti comuni a questi racconti. Il primo, il più forte ed evidente, è la follia. Una vena di follia, a tratti consapevole e vissuta con sarcastica lucidità, attraversa il libro dalla prima pagina all’ultima. I sei narratori raccontano, ciascuno in modo peculiare (drammatico, esplosivo, dimesso, comico, esemplare, surreale, come fosse un sogno o una favola o la realtà più semplice e cruda), il legame stretto fra carcere e follia. E’ spesso la follia a spingere la gente dentro una galera oppure è la galera a produrre come un suo effetto inevitabile, quasi calcolato in anticipo, la follia. La massima staticità e la massima agitazione finiscono per convergere in un unico istante e in uno spazio definito, quello della cella. O di un reparto intero, magari definito ironicamente dai suoi abitanti “il Dimenticatoio”.  Dato che “se c’è un punto di non ritorno, è il carcere e la sua pazzia.” 

A sporgersi sull’orlo del baratro può essere il narratore stesso, che descrive spassionatamente il proprio autolesionismo  (“Quando ero piccolo facevo piccoli tagli sotto l’occhio destro e aspettavo che colasse il sangue. ‘Ehi, guardami mondo, anch’io soffro, anch’io piango sangue!’”), oppure uno dei tanti personaggi con cui il narratore ha condiviso la vita reclusa, come il detenuto fissato a pulire maniacalmente la sua cella: “gattonò sino alla mattonella, vi spruzzò sopra del detergente e con uno straccio tornò a sfregarla con compulsiva insistenza. Strascicando le ginocchia si tirò quindi indietro di qualche passo e prostrandosi nuovamente sul pavimento verificò il lavoro appena svolto. Per la verità fu indeciso, perché quella macchia c’era e non c’era, e se non c’era, rimaneva in ogni caso l’immagine che di questa macchia era senz’altro impressa nella sua mente.” Quindi quella macchia c’era davvero, da qualche parte, anche se non sul pavimento della cella… 

Proprio per questo, non importa se gli eventi siano realmente accaduti o siano frutto di invenzione letteraria. Le conseguenze che essi provocano sono comunque reali, tangibilissime, e danno la misura di processi esistenziali comuni alla galera quanto al mondo esterno. La galera appare perciò come una sorta di laboratorio dove si sperimentano in vitro, a temperature elevatissime o sottozero, frustrazioni e aspirazioni ordinarie. “Ho sognato le carezze del mondo per una vita intera, ho sognato così tanto che qualcuno toccasse il mio volto che ho finito per accettare gli schiaffi.” Ora il  fatto di trasformare disperatamente e magicamente il proprio dolore in fonte di piacere, cambiandolo di segno, il tentare di rendere redditizia la sofferenza finendo dunque per affezionarcisi, non è forse uno stratagemma che adoperiamo tutti?  

E non diversamente dagli uomini liberi, anche quelli detenuti sono comunque “liberi” di manifestare il proprio scetticismo verso le terapie che dovrebbero risolvere il disagio psichico o almeno attenuarlo. Un sorriso disincantato colora queste storie mentre raccontano incontri e sedute con gli specialisti. “Considero la psichiatria alla stregua della cartomanzia e non mi piace il modo in cui queste persone cercano di infilarsi sotto la pelle dei pazienti. So di sbagliare ma in fondo stare dalla parte del torto, una volta che ci fai l’abitudine, non è un gran problema.” Un fatalismo beffardo, un singolare compiacimento derivano dall’essere riconosciuti malati (“Era da un po’ che non ci si vedeva. Bentornata follia!”), come, al contrario, dal non esserlo, persino se questa diagnosi di sanità mentale cancellerà ogni attenuante al crimine commesso: “Nel soggetto NON emergono problemi di natura psichica. Sono troppo soddisfatto per dare peso alle implicazioni di quella frase. Ci pensa il dottore a ricordarmele. – Vede, io così la condanno. Se avessi scritto che lei sente delle voci probabilmente se la caverebbe con pochi anni, ma così… – Paradossalmente è lui a fare il gesto scaramantico con indice e mignolo.”   

Vi è autoironia e consapevolezza di uno stato al tempo stesso drammatico e lievemente ridicolo, regressivo, quello di adulti incapaci di amministrare la propria vita senza autodistruggersi o distruggere quella altrui. “Giovedì, intorno alle 19, il sottoscritto ed un manipolo di una ventina di persone composto perlopiù da falliti maschi di varie età, si ritrova in una saletta messa a disposizione dal consultorio”… Alla domanda su cosa sia la pazzia, posta dal professore che li ha in osservazione, il soggetto rimugina varie fantasie tutte variamente autentiche : “La pazzia è sognare di crepare in un conflitto a fuoco con gli sbirri e di portarsene qualcuno all’inferno… La pazzia è desiderare di tornare in carcere perché il mondo fuori è troppo complicato e possiede un’anima più nera e crudele…”, per poi rispondere nel modo più banale e conveniente: “ – La pazzia  è un comportamento anomalo rispetto alla società –  dico. E mi dò un 9 per la risposta diplomatica e un 10 per l’ipocrisia.” 

Talvolta i comportamenti tenuti in carcere sembrano follia e invece rappresentano la resistenza contro di essa, un modo per mantenersi vigili, integri, ad esempio il parlare da soli: “ i monologhi che facevo ad alta voce, convinto che se fossi rimasto un anno senza comunicare con nessuno come imposto dal verdetto di condanna, avrei perso l’uso della parola.” Il carcere rallenta alcuni processi esistenziali mentre ne accelera altri: “chissà perché in carcere la pazzia si sviluppa in modo più rapido di quanto non avvenga fuori. Credo dipenda dal fatto che qui dentro, dopo qualche anno, un po’ pazzi lo diventiamo tutti e questo spiega perché non avvertiamo il primo stadio della follia innanzitutto su noi stessi e poi sugli altri.” 

Ma non c’è solo il carcere in questo libro, ovviamente. Quasi tutti i racconti che lo compongono sono animati da un continuo andirivieni narrativo, tra il dentro e il fuori, il reale e l’immaginario, il passato e il presente. Come entrando in carcere ci si porta dietro brandelli di vita libera, così uscendone, la prigionia vissuta continua sottilmente ad agire, a lavorare nell’individuo. Gli effetti della detenzione si allungano come una scia alle spalle della persona scarcerata ma non la abbandonano, anzi, la tallonano da vicino. “Sto diventando matta anche fuori. Sono io… un pesce fuor d’acqua ora più di quando ero in carcere. Com’è possibile? Sono libera! Non è ciò che conta. Mi ha segnata. Mi ha rapita. Mi ha condonata.”  

Davvero luminosa, enigmatica e martellante questa triplice frase priva di soggetto!  

Ed ecco infatti la seconda e decisiva caratteristica del libro, che riusciamo a cogliere solo chiudendolo, a lettura ultimata: vale a dire la notevole qualità letteraria dei racconti che vi sono raccolti. Ciascuno dotato di un suo stile personalissimo e spesso coraggioso, sciolto, insofferente, inventivo. In alcune pagine davvero libere e  davvero ben scritte, si ritrova un ritmo narrativo orginale come quello del bellissimo e bizzarro Prigione di Emmy Hennings, ambientato a Monaco di Baviera e pubblicato esattamente un secolo fa. Altre galere, paesi diversi, millenni diversi: eppure quante cose comuni! Segno, fra l’altro, che il regime di detenzione non priva chi vi è sottoposto della capacità di resistervi con l’invenzione personale; e non cancella del tutto le risorse specifiche della parola, che ogni giorno si rigenerano anche nel nulla, nel vuoto: “… scagliai verso quegli uomini seduti e su quelli nascosti dietro di loro, il contenuto del mio bugliolo. Poi mentre venivo buttato per terra gridai la mia grandezza.”  

Autori

gli autorii racconti
PATRIZIA DURANTINIPensieri Doppi
“EDMOND”Perché un pazzo che cos’è?
STEFANO LEMMALa crisalide
MICHELE MAGGIOComma 22
SEBASTIANO PRINOSa bentana cunzada
SALVATORE TORRESesto Lario e Svastica

I Vincitori

1° classificato ex aequo

La Crisalide
di Stefano Lemma

MOTIVAZIONI

Racconto fluido e ben strutturato che percorre le traiettorie della follia trasmettendone le tipiche fissazioni ed esplosioni. Denota un’abilità letteraria capace di allargare l’orizzonte e riflettere sulla genialità dell’estro creativo.

1° classificato ex aequo

Comma 22
di Michele Maggio

MOTIVAZIONI

Racconto potente e vivido, in cui la disperazione viene costantemente attutita dall’ironia; un bellissimo squarcio non solo sulla detenzione ma soprattutto su quello che può accedere quando ci si ritrova, spaesati e impauriti, nel mondo dei “liberi”.

La Giuria

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Premiazione al Salone del Libro

Salone internazionale del Libro di Torino

9 Maggio 2019 – h. 15.30 Sala Rossa

MALAFOLLIA
Progetto speciale del
Premio Goliarda Sapienza – Racconti dal Carcere

Reading con
Luigi Lo Cascio | Andrea Sartoretti

Dibattito con
Edoardo Albinati | Erri De Luca | Patrizio Gonnella

Premiazione del Vincitore dell’VIII Edizione del Premio Goliarda Sapienza

Presenta: Antonella Bolelli Ferrera

Riconoscimenti

Al Premio Letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” 2019 è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica.

Clicca per saperne di più

Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio