ATONEMENT – Mons. Dario Edoardo Viganò

Dolore, frustrazione, rabbia, senso di colpa, rassegnazione, rancore, pentimento e solitudine. Una profondissima solitudine. Qualche volta anche un briciolo fugace di speranza e gioia. I sentimenti più intimi ed estremi subentrano uno all’altro, si sovrappongono, si accumulano e si mescolano vertiginosamente in ognuna delle decine di racconti raccolti in questo volume Atonement. Sono pagine, sono tracce di vita di uomini e di donne, che scontano pene diverse nelle strutture carcerarie italiane; racconti tessuti in un corpus unitario da Salvatore Torre il cui filo conduttore è la sua stessa storia di errori e di sofferenze. 

La prigione, come descrive l’Autore, è un «luogo angusto e promiscuo, fatto di regole e convivenza obbligata», un mondo sovraffollato dove la complicità interessata e l’amicizia calcolatrice nascono spontanee tra le persone, rendendo sempre più sfuggente la trasparente libertà dei rapporti umani che è una delle più belle espressioni dell’amore. 

Compongono queste pagine quelle voci che pochi sono disposti ad ascoltare; voci che fanno fatica ad attraversare le grosse mura e le spesse sbarre del carcere, cui il più delle volte ci si accosta con sospetto o persino pregiudizio. I primi passi del libro guidano il lettore alle radici di tali storie che iniziano raccontando le privazioni che spesso hanno spianato la strada al cambiamento di rotta della vita e alla prigionia: la povertà vera, quella del cibo, la povertà di educazione e la mancanza di modelli di riferimento; ma probabilmente la peggiore privazione tra tutte è la mancanza di tenerezza e affetto. Mancanze basilari, persino dei capricci più elementari che un bambino può desiderare, come un giocattolo, un gelato o l’abbraccio genitoriale.  

Comunque, per quanto difficili, molti dei nostri scrittori, rimpiangono persino quei giorni incerti dinanzi alla successiva sequela di aggressioni e violenze. «Convivo in pochi metri con altre storie, alcune ancora più tristi della mia, ma sempre di serie B, di emarginazione, di abbandono», racconta un recidivo che pensava di essere stato riabilitato prima di tornare un’altra volta in galera a 54 anni. 

Accanto alle privazioni, a destabilizzare queste vite verso la vertigine del male, figurano anche presenze nocive, come le compagnie malavitose, oppure occasioni dispersive, dettate da senso d’insofferenze o ricerca di attenzione. Qualcuno, infatti, ha iniziato a percorrere sentieri sbagliati sottraendo semplici caramelle o frutta nei mercati rionali, gesti che però sono diventati tutt’altro che occasionali o poco rilevanti. «I furti d’autoradio e quelli in appartamenti furono i nostri primi luoghi di approvvigionamento di denaro», confessa Torre. 

Le vite di queste persone, dopo tali inciampi, intraprendono un oscuro scivolo che conduce a un viavai dai centri di detenzione. Per coloro che iniziano da giovani, il percorso riserva un elenco continuo di detenzioni presso strutture per minori, che di solito portano a una prima condanna; una condanna il più delle volte che non rimane isolata, ma seguita da un’altra, da un’altra ancora.  

Il lamento poi legato all’impossibilità di cambiare vita si ripete diffusamente nelle carceri, in questi scritti: «Non c’è nessuno che ti dice che quello che hai fatto è sbagliato, nessuno che ti aiuta a pensarla diversamente, lì dentro troverai solo gente che ti esalterà per aver fatto quello che hai fatto, gente che ti convincerà di non aver sbagliato niente». Afferma così, con rabbia, un detenuto la cui prima condanna lo ha portato all’età di 20 anni a trovare nei suoi compagni di cella «storie – scrive ancora lui – spesso identiche alla tua». Così alcuni prima e altri più tardi, si rendono conto che il futuro non offre un destino migliore fuori dal carcere, perché, come indica Victor Hugo fra le drammatiche righe del suo romanzo I miserabili: «La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna».  

Questi uomini e queste donne sanno bene che le loro peripezie criminali spesso troncano qualsiasi opportunità di reinserimento sociale. Infatti, dopo aver varcato la soglia della prigione, arriva inesorabilmente quella quotidianità monotona che inizia dal «rumore metallico delle mandate di chiave». Mandate che risuonano dentro la testa e stringono «il cuore in una morsa». È il ricordo di uno di loro, che ha già compiuto più di 52 anni di pena dentro il carcere.  

Tra quel momento iniziale e la fine della condanna molti vivono con l’illusione permanente di ritrovare una vita degna, di riguadagnare una piena libertà, magari uscendo in anticipo come conseguenza di una condotta esemplare. La realtà assume purtroppo una configurazione ben diversa. Spesso queste donne e questi uomini, a causa dell’ansia e della disperazione, finiscono per farsi spogliare di tutto, rinchiusi magari in celle d’isolamento per cattivo comportamento. E lì, nella solitudine della punizione, che può durare delle settimane, il silenzio diventa ancora più sgradevole; un silenzio assordante cui si preferisce persino il fastidioso rumore di un compagno di cella che russa oppure quell’odore insopportabile dato dalla forzata coabitazione in spazi ridotti, quel «puzzo di chiuso che non se ne va neanche dopo la doccia». Così lo definisce un detenuto che sospira con malinconia al ricordo del profumo di pane appena sfornato cui era abituato a casa. 

Come si riesce a sopravvivere in un ambiente così claustrofobico? Dove è possibile trovare la forza di sperare dinanzi a giorni tutti uguali? Come arginare lo sbiadire dei legami familiari, consumati dal logorio del tempo e dalla distanza? Salvatore Torre con questo libro non pretende di dare risposte a queste domande, nemmeno di giustificare i reati che hanno portato ciascuno a perdere la propria libertà. L’Autore trova in questa avventura letteraria collettiva, un modo per uscire da se stesso, un’opportunità per oltrepassare, seppure brevemente, quelle mura che gli ricordano – a lui che ha la condanna dell’ergastolo fine pena mai – che il suo sguardo lì si infrangerà; un pensiero, un sogno di libertà, che lo accomuna ai suoi compagni di prigione coinvolti nel processo di scrittura.  

Questo percorso letterario può assumere la forma di un Atto di dolore, di una via di riscatto e riconciliazione con se stessi e la società tutta? Può divenire un atto di testimonianza verso il prossimo, per aiutare l’altro a prevenire cadute in percorsi sbagliati? Sicuramente lo psichiatra e filosofo austriaco Viktor Frankl, sopravvissuto ai lager di Auschwitz e Dachau, ribadirebbe loro: «Tutto può essere tolto ad un uomo ad eccezione di una cosa: l’ultima delle libertà umane – poter scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, anche se solo per pochi secondi». 

Anche, papa Francesco, nel suo incontro con un gruppo di detenute nel viaggio apostolico in Cile nel 2018, ha ricordato: «Essere private della libertà […] non è sinonimo di perdita di sogni e di speranze. È vero, è molto duro, è doloroso, ma non vuol dire perdere la speranza. Non vuol dire smettere di sognare. Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice il tango argentino: “Dai, avanti così, che tutto è uguale, che là all’inferno ci ritroveremo…”. No, non è tutto lo stesso. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato» (Santiago del Cile, 16 gennaio 2018).  

 

Dinanzi alle pagine di questo libro la resistenza è forte; una lettura del dramma umano, sia quello di chi paga la pena, sia quello più profondo delle centinaia di vittime e famiglie che hanno subito le conseguenze degli atti criminali, che chiede forza per resistere nella tessitura di queste pagine di Torre. 

Eppure, dopo la lettura di queste storie, compilate e redatte con l’aiuto della giornalista e scrittrice Antonella Bolelli Ferrera, saremo in grado di dire, come san Giovanni XXIII, «io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore». Papa Roncalli ha utilizzato queste parole nella sua storica visita al Carcere romano di Regina Coeli il 26 dicembre 1958, accostandosi ai suoi fratelli sofferenti come un pastore, come un buon samaritano, e improvvisando un discorso pieno di compassione, denso di misericordia. 

A ben vedere, è quanto ci ripete sempre papa Francesco: «Dio non si stanca mai di perdonare». Queste parole sono una referenza perenne all’infinita misericordia di Dio verso tutti i suoi figli e figlie senza distinzione, parole che diventano per tanti carcerati una vera fonte di pace e speranza. Sì, è vero, Dio non si stanca mai di perdonare, né ai carcerati né a noi tutti peccatori che leggiamo queste storie. 

 

 

Mons. Dario Edoardo Viganò 

Assessore presso il Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede

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