Il Libro

VOLETE SAPERE CHI SONO IO?
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Autori: vari
Data di uscita: 15 marzo 2011
Casa Editrice: Mondadori
Collana: Piccola Biblioteca Oscar
Pagine: 358

Link di acquisto: Amazon

Nelle carceri italiane si legge molto. E ancora di più si scrive. Perché ciò significa essere liberi. Liberi di scegliere cosa leggere, cosa scrivere. Liberi di vagare con il pensiero, superare inferriate, porte, muri. E la scrittura diventa un mezzo potente per ricordare, riflettere, immaginare, sconfinare. Evadere. Non a caso esiste un vero e proprio filone di letteratura che ha dato vita a capolavori assoluti, dal De Profundis di Oscar Wilde ad Arcipelago Gulag di Aleksàndr Solženicyn, fino a L’università di Rebibbia della scrittrice siciliana Goliarda Sapienza. Proprio a lei è stato intitolato un concorso letterario tenutosi tra i carcerati italiani nel 2010, ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera e patrocinato dalla SIAE e dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia.
Questo volume raccoglie i venti racconti finalisti, per i quali importanti scrittori italiani hanno affiancato nella stesura i detenuti e le detenute, noti o sconosciuti, giovanissimi rinchiusi nei carceri minorili o anziani ergastolani, ma ciascuno portatore di una storia intensa che rivive sulla pagina accesa di una nuova sensibilità. Il risultato sono venti narrazioni di grande impatto emotivo, crude e tenere, che gettano un ponte tra i due mondi, solo apparentemente distanti, di chi sta “dentro” e di chi sta “fuori”.

VOLETE SAPERE CHI SONO IO?
Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera

Autori: vari
Data di uscita: 15 marzo 2011
Casa Editrice: Mondadori
Collana: Piccola Biblioteca Oscar
Pagine: 358

Link di acquisto: Amazon

Nelle carceri italiane si legge molto. E ancora di più si scrive. Perché ciò significa essere liberi. Liberi di scegliere cosa leggere, cosa scrivere. Liberi di vagare con il pensiero, superare inferriate, porte, muri. E la scrittura diventa un mezzo potente per ricordare, riflettere, immaginare, sconfinare. Evadere. Non a caso esiste un vero e proprio filone di letteratura che ha dato vita a capolavori assoluti, dal De Profundis di Oscar Wilde ad Arcipelago Gulag di Aleksàndr Solženicyn, fino a L’università di Rebibbia della scrittrice siciliana Goliarda Sapienza. Proprio a lei è stato intitolato un concorso letterario tenutosi tra i carcerati italiani nel 2010, ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera e patrocinato dalla SIAE e dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia.
Questo volume raccoglie i venti racconti finalisti, per i quali importanti scrittori italiani hanno affiancato nella stesura i detenuti e le detenute, noti o sconosciuti, giovanissimi rinchiusi nei carceri minorili o anziani ergastolani, ma ciascuno portatore di una storia intensa che rivive sulla pagina accesa di una nuova sensibilità. Il risultato sono venti narrazioni di grande impatto emotivo, crude e tenere, che gettano un ponte tra i due mondi, solo apparentemente distanti, di chi sta “dentro” e di chi sta “fuori”.

Introduzione Giorgio Assumma

Giorgio Assumma
Presidente della Siae dal 2005 al 2010

Racconti dal carcere nasce come concorso letterario ed ora è anche un libro. Quale migliore coronamento per le aspettative di tutti coloro che vi hanno partecipato?
Partiamo dal premio, il cui titolo esatto è Goliarda Sapienza, Racconti dal carcere. Antonella Ferrera, che ne è l’ideatrice, l’ha voluto dedicare alla scrittrice siciliana che si trovò per un incidente di percorso ad essere reclusa nel carcere romano di Rebibbia. E proprio dal soggiorno dietro le sbarre, scaturì un libro, L’Università di Rebibbia, e la sua successiva pubblicazione.
Quel libro ha qualcosa di speciale. Quel qualcosa che non deriva da una normale inchiesta, ma da un’esperienza umana vissuta.
Quando alla Società Italiana degli Autori e degli Editori, che ho avuto l’onore di presiedere, è stato proposto di appoggiare l’iniziativa, l’ho fatto con entusiasmo. Se è vero che lo scopo istituzionale di SIAE è di tutelare il diritto d’autore e di promuovere la diffusione delle opere dell’ingegno, ha per questo il dovere di assecondare iniziative tese a stimolare la creatività anche di coloro che per la loro condizione più difficilmente hanno accesso al circuito della produzione intellettuale.
La storia ci ha consegnato molteplici esempi di come la pulsione ideativa si sia sviluppata su stati di sconforto, di sofferenza morale, di solitudine. E il fenomeno della creazione di opere nelle carceri, oltre a quello già citato di Goliarda Sapienza, non è un fatto nuovo nella letteratura, dal De Profundis di Oscar Wilde, a Le mie prigioni di Silvio Pellico, dalle Lettere dal carcere di Gramsci ad Arcipelago Gulag di Solzenicyn.
Il concorso letterario Racconti dal carcere avvicina il mondo letterario a quanti scontano una condanna e consente ai detenuti finalisti – che attraverso la scrittura hanno esplorato la loro esistenza – di avere come tutor d’eccezione scrittori affermati. E il libro, questo libro, è la massima espressione dell’impegno di queste inedite coppie di autori.
Al momento di andare in stampa, non sono ancora stati proclamati i vincitori, ma questa opera che raccoglie i loro scritti, rappresenta di certo il più grande successo per tutti loro. Scrivere del male commesso, non cancella quel male, ma può rappresentare il punto di partenza di un possibile riscatto.
Mi piace chiudere prendendo in prestito ciò che ha detto Dacia Maraini, madrina del Premio:

“Coloro che hanno sempre creduto nella legge dell’azione, quando si trovano chiusi e privati della libertà, si accorgono che l’azione scompare e viene fuori qualcosa che non avevano mai preso in considerazione: il tempo, il pensiero, la riflessione. Vediamo allora che la scrittura diventa come quella farfalla che spesso hanno tatuata: la loro forza”

Prefazione Franco Ionta

Franco Ionta
Capo dell’Amministrazione Penitenziaria

Il rapporto con i libri è unico e irripetibile. Leggere è come vivere tante vite. E’ riconoscersi nella forza della parola per uscire dalla propria pelle e indossare quella dei personaggi che appassionano, pagina dopo pagina, identificandosi con le loro emozioni. E quando si giunge alla fine si vorrebbe tornare indietro e ripercorrere la trama delle esistenze incontrate nella solitudine della lettura.

In carcere si legge molto. E si scrive moltissimo. Lo si fa molto più di quanto si immagini. Il perché è lampante ed è racchiuso in una parola che può suonare estranea se abbinata a quel contesto: libertà. Libertà di decidere che cosa leggere e che cosa scrivere. Che vuol dire libertà di librarsi con la mente e di superare le barriere che separano da quel mondo esterno che per un periodo più o meno lungo non è concesso.
In carcere il tempo si dilata e stabilisce l’andamento della giornata secondo un ritmo che appartiene all’organizzazione. E’ un tempo oggettivo che si appropria del tempo vissuto, è tempo sottratto alla libertà. Troppo spesso trascorso nell’inedia, “consumato” nel nulla, nell’assenza di movimento. Anche mentale. C’è movimento quando c’è trasformazione, quando insorge quella spinta interiore che induce a cambiare, a scegliere di essere altro da quello che si è stati, a sfidare i propri limiti, a riprendere la marcia, a rialzarsi dopo essere caduti. E la scrittura è un mezzo. Si scrive per ricordare, per immaginare, per sconfinare.

Dentro il carcere, lo scrivere avviene perché “suggerito” dai corsi di scrittura creativa, ma anche per moto spontaneo, tant’è che il binomio carcere e letteratura ha creato un genere. Detenuti scrittori e scrittori detenuti hanno prodotto pagine di grande interesse, a volte irripetibili. Goliarda Sapienza, la scrittrice siciliana cui è stato intitolato il premio letterario Racconti dal carcere, ne è stata un fulgido esempio.

I detenuti che hanno voluto parteciparvi, lo hanno fatto calandosi nuovamente, a volte a prezzo di nuova sofferenza, nella propria storia. Alcuni l’hanno raccontata fin nei minimi dettagli, altri ne hanno esposto i frammenti. C’è chi, quella storia l’ha reinterpretata, come farebbe un esperto romanziere. Ma questo è irrilevante. Non è la certificazione di autenticità che stabilisce la qualità di ciò che è stato scritto.
Ognuno, quando si racconta, sottrae verità e ne aggiunge altre, ma in tal modo esercita la conoscenza di sé, avviando un percorso sempre più intimo e profondo dentro se stesso.

I concorsi letterari promossi nelle carceri sono numerosi, la novità del premio Goliarda Sapienza sta nell’avere coinvolto autori di primo piano nel panorama culturale e di averli invitati a svolgere il ruolo di tutor di uomini e donne che nelle nostre carceri scontano una pena. Dal progetto di Antonella Ferrera, che ho immediatamente accolto e personalmente sostenuto, è nato questo libro, un esempio concreto dell’incontro tra mondi solo apparentemente distanti.

Scrivere per sentirsi liberi Antonella Bolelli Ferrara

Antonella Bolelli Ferrera

La prima volta che sono entrata dentro un carcere, è stato a Regina Coeli, a Roma. In quei giorni, un ospite eccellente aveva varcato i famosi “tre scalini” (secondo un’antica canzone popolare, chi non li ha mai saliti non è romano e neppure trasteverino). L’ospite eccellente era recluso in un reparto sotto stretta sorveglianza. Gli agenti avevano il compito di verificare di giorno e di notte che non compisse atti autolesionistici.
Mentre camminavo nei lunghi corridoi, freddi anche quando fuori fa caldo, cercavo di immaginare che cosa stesse facendo quel distinto signore, di certo abituato a una vita più comoda e mondana. Gli agenti, accompagnandomi davanti alla sua cella, mi hanno detto semplicemente “E’ lì” e non c’è stato verso di estorcere qualche indiscrezione.
Il blindo era socchiuso. Passandovi, ho scorto l’uomo, di schiena, seduto davanti a un piccolo tavolo. Forse era intento a scrivere. Scrivere a casa, oppure una poesia o, meno romanticamente, memorie in sua difesa, o anche memorie e basta.
Proprio in quei giorni, stavo ricevendo gli scritti dei detenuti per il concorso letterario Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere. Erano centinaia. Non tutti i partecipanti si erano attenuti alle regole del bando e inviavano romanzi-fiume, anche scritti a mano e quasi indecifrabili. Nelle lettere di accompagnamento, spiegavano persino le condizioni in cui avevano dato corpo, giorno per giorno, o di notte in notte, al loro racconto. Forse, per giustificare qualche errore di troppo, specificavano “Siamo in sette… la tv è perennemente accesa”, oppure “Ci sono tre slave in cella con me. Litigano continuamente” e ancora “Mi sfottono, perché scrivo… Sono costretto a farlo di notte, mentre quelli russano”.
Ho pensato che in fondo quel distinto signore, nella sua cella singola, era quasi un privilegiato. E mi sono detta, prendendomi una piccola libertà nella selezione degli scritti, che avrei cercato di dare spazio ai reclusi anonimi, sconosciuti al resto del mondo. Così è stato. Fra i venti racconti finalisti che compongono questa antologia, uno soltanto ha per autrice una persona venuta alla ribalta delle cronache.
Sono più uomini che donne, e forse si spiega nel fatto che la popolazione carceraria è di gran lunga più maschile che femminile. Un aspetto curioso è che sono i campani – quasi tutti napoletani – i più prolifici nella scrittura e anche quelli disposti a raccontarsi senza remora alcuna.
Ad alcuni, ho potuto dare di persona la notizia. Non dimenticherò quei momenti e quegli sguardi. Sono persone molto diverse per provenienza, estrazione ed età. Ognuno, incontrandomi nella stanzetta del colloquio e senza sapere ancora chi fossi, mi ha “accolta” con aria tra il preoccupato e il rassegnato, come di chi non è abituato a ricevere buone nuove. Alle mie prime parole “premio letterario”, hanno capito. Si sono accese luci nei loro occhi che hanno illuminato anche me, e non si trattava di tre pischelli – mi si passi il termine – alle prime armi.
Uno di loro lo avevo già conosciuto nel corso di una mia visita a Regina Coeli. Fu il caso. Mi fecero parlare con lui, perché avendo l’incarico di scrivano (colui che raccoglie e trascrive le richieste del settore in cui è detenuto), aveva più di altri la percezione del comune sentire della sua sezione. Mi disse che aveva partecipato al premio letterario Goliarda Sapienza – Racconti dal carcere, che gli piaceva scrivere e leggere, che da ragazzo aveva frequentato il liceo classico, e che poi i fatti della vita… Non sapeva, ovviamente, chi fossero gli scrittori-tutor che sarebbero stati abbinati agli autori-detenuti finalisti, ma mi disse, buttandolo lì, un nome. Gli chiesi perché proprio quello e mi spiegò che sarebbe stato stimolante far elaborare il suo racconto – un racconto anche di militanza politica – proprio da chi, a livello ideologico, era stato dalla parte opposta. Bene, quello scrittore entrò davvero a far parte della rosa dei tutor, e la storia di quel detenuto è nascosta tra le venti di questa antologia. Il destino ha voluto (con rigorosa estrazione a sorte) che i loro due nomi camminassero abbinati in questa avventura letteraria.
C’è anche chi, prima dell’uscita di questo libro, ha ritrovato la libertà. Mi ha fatto piacere risentire al telefono la voce di quella ragazza appena maggiorenne che ero andata a trovare in un carcere minorile. Che il suo racconto crudo e tagliente sia per lei soltanto il primo passo verso una vita migliore.
Gli ergastolani sono invece un capitolo a parte. Per raccontare le loro vicende non basterebbe l’intera opera: traffici, rapimenti, fughe, omicidi, rapine. Alcuni hanno assunto dietro le mura dei penitenziari il ruolo di leader della protesta, ed hanno approfittato anche del loro “racconto dal carcere” per esprimere stati di sofferenza e disagio. Il pensiero del suicidio, se non ha toccato direttamente la loro volontà, lo ha fatto con altri compagni che non hanno resistito dietro le sbarre.
Ho incontrato alcuni di loro per farmi spiegare il “detto e non detto” dietro le righe. Potrei scriverci un romanzo, ma spero che presto lo facciano loro.
Ad uno ad uno, desidero conoscerli tutti, perché ho avuto la riprova che quegli scritti – quasi tutti – rappresentano anche una richiesta di aiuto.
E poi ci sono gli scrittori-tutor. Senza di loro questa esperienza non sarebbe stata possibile. Tutte persone impegnate ai massimi nella loro attività artistica e letteraria, quelle che a volte fai persino fatica ad intervistare. Ma è nei momenti speciali che riconosci le persone speciali. Dare a chi non ha anche solo un po’ del proprio tempo e del proprio sapere, vuol dire donare speranza. E per chi vive dietro a quattro mura, la speranza aiuta ad affrontare la vita.

I Vincitori

1° Classificato Premio letterario Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere”

per la più intensa riflessione interiore

La fortuna di perdere
di Federico Abati

Papà, ho tanto sbagliato
con forza rabbia e ostinazione
ho cercato ogni tentazione;
cosa farò del mio passato?
(…)

Le serate di casa Conti erano i tornei di bridge. Mamma giocava bene, mio padre era un fenomeno: era capace di calare una scartina come se fosse una pepita d’oro e tutti si aspettavano il miracolo, anche quando era impossibile. Chi faceva coppia con lui gioiva e tremava allo stesso tempo, papà non digeriva gli errori degli avversari perché erano un insulto alla strategia del gioco; quelli del suo compagno di turno poi, alla fine della partita, glieli spiegava, con un tono di voce così calmo e dottorale da tagliare l’armonia anche dei tavoli adiacenti. Con il suo ventaglio di tredici carte colorate, la fluidità delle battute, la perfetta esecuzione del gioco, era affascinante; io avevo otto anni e di bridge non ne capivo niente, ma rimanevo ore e ore a guardarlo, a studiarlo, ipnotizzato: ma quando diventerò come te, quando?
I saloni dell’hotel che ospitavano i tornei, enormi e luminosissimi, si riempivano di colori in quelle occasioni: i gioielli, i vestiti da sera, le sete, gli strass, tutto scintillava; con le risate sommesse e il chiacchiericcio si sentiva un’aria di festa.
Quella sera ci fu, in mezzo al tintinnio armonioso, uno strillo acuto, inopportuno.
(…)
La mia famiglia stava bene, ma il figlio viziato non ero io, questo compito era toccato a mia sorella: lei aveva tutto. Io avevo tutto ciò che non usava più lei: giochi, libri, vestiti, quello che possedevo non era stato comprato per me, io lo riciclavo. Vi siete mai messi un maglione da donna o i jeans con le cuciture rosa almeno una volta nella vita?
(…)
Cazzo, la musica! Che ficata il mondo che ci gira intorno! Ti ci butti dentro così come sei e ti lasci portare dove vuoi… dove vuole lei. Bastavano un paio di jeans strappati, massimo due, il chiodo, la pelle e il ferro, meglio se appuntito, che riuscivi a metterti addosso. Avevo scoperto il potere della musica dal di dentro: lavoravo nei servizi d’ordine ai concerti, per una società di produzione di eventi che era già un nome mitico negli anni Ottanta, David Zard, poi diventata Barley Arts. Coprivamo quasi tutti i grandi concerti di Roma all’Olimpico, allo Stadio Flaminio, al Palasport…
Potevo fare come mi pareva, giravo truccato sdrucito con la cresta rossa e più ero sbracato meglio era…
(…)
Ero un punk, si può desiderare di più? Anarchico, ma misericordioso e accogliente, frequentavo una fauna che chiamarla eterogenea era dire poco: metallari, rockabilly, dark, mod, afro, un casino totale, ma ci univano gli stessi sorrisi aperti, e le stesse voglie: stordirsi di suoni, sesso e sballi, in questo ordine.
(…)
La roba era un buco nero che inghiottiva lo spazio, la mia storia e appiattiva il tempo in un crepuscolo eterno.
Senza accorgermene alzavo il livello di aggressività e mettevo sempre più in disparte gli scrupoli, la coscienza, la sensibilità, la mia dignità.
(…)
Gli unici intervalli erano le carcerazioni. Passavo un po’ di tempo dentro a prepararmi, a caricarmi di nuovo. Un giorno in macchina con Bruno, dopo esserci bucati…

Motivazioni

Racconto sorprendente e feroce. Sofferto ed emozionante, per la capacità di scavare nella propria vita, che non si ferma a un lavoro di introspezione interiore, ma va oltre, si fa racconto, narrazione ed emoziona, perché nonostante le ferite, restituisce sensazioni positive, solari persino.

1° classificato

per la migliore storia

La notte perenne
di Pietropaolo Chiuchini

Testa di Cane, al secolo Simposio Fausto. Aveva un solo braccio. L’altro era morto di cancrena dopo un’inenarrabile danza viziosa. Il braccio aveva iniziato a suppurare pus dopo varie sedute totemiche a base di buchi di speedball (ero e coca sciolte assieme e poi innestate) nel sangue della bestia sacra; rapidamente la massa marcia, come una fuoriuscita di gasolio, aveva ricoperto l’intera superficie, in modo tale che, grazie all’evidente alcolemia, Testa alzava i pochi lembi di pelle rimasta e bucava nelle vene, simili a serpi pulsanti morte. La vita lo aveva reso demente, ma di quella demenza che aveva colpito le più belle teste della sua generazione. Una demenza che si credeva altro, ma che invece non era che una “resa balcanica” alle difficoltà personali e sociali; si iniziava allora a parlare di società in termini trasversali con capo e coda, della responsabilizzazione a partire da cui l’uomo pre- e post-psicoanalisi declinava progetti e scelte che, come un maglio, saranno il compromesso duraturo dell’ovvietà, del banale, mediocre quotidiano. Testa aveva una sensibilità rarefatta, dolorante, ultimo baluardo che si enucleava dalla meningite per traghettarlo verso la speranza; ma quale speranza si chiedeva sempre più spesso!
Nella stessa cella di Testa – avevo dimenticato di dirvi che era dentro da quasi tre anni – si componeva come un’Assunzione epifanica l’enclave dei Corsari della Notte Perenne, piccolo manipolo di dionisiaci, iniziati da tempo al culto dell’ostrica bianca, sostanza che dai monti nepalesi si votava “per sorta d’alchemia” a ibrido nemetico.
(…)
Veleno, al secolo Mauro Giuliano Fracassi, era il più anziano dei Corsari, ma non per questo meno pericoloso. Un fisico che, nonostante gli anni, era di una feroce bellezza, quasi agghiacciante per quello che suggeriva: violenza! Entrato per una condanna a sei mesi, si era reso famoso in tutti i carceri italiani, dove era conosciuto come il “colpitore eburneo”. (…) a causa della sua ingestibilità, veniva invariabilmente trasferito; si levava il proprio urlo da guerriero, era solito portare un kilt a calzoni comprato in Scozia, una delle nostre mete preferite, per il resto viaggiava a busto nudo anche in pieno inverno.
(…)
Altro componente fondatore della nicchia era Lucio III, signore delle droghe e della terra incogita. Capo spirituale di unico carisma, in lui i silenzi componevano una profonda realtà seduttiva. Aveva una condanna a undici anni, di cui più della metà presi per una piccola quantità di eroina, centosessantasei chili, periziata 99 punto 4, che lui stesso aveva portato da Peshawar, al confine tra Pakistan e Afghanistan, dove si produceva la miglior morfina della terra (…) Si bucava già da due anni, un contesto famigliare di alto lignaggio, nobili a tre palle (Lucio era un marchesino del cazzo)…
(…)
La mia trama con i Corsari ebbe inizio nella prima giovinezza, non avevo ancora quattordici anni ed ero bello come l’Arno e con la mente affilata come un bisturi.

Motivazioni

L’autore rende la propria esperienza in uno smagliante pulp “alto” (citazioni anche in latino, ma metabolizzate perfettamente dentro la storia); ha una cultura profonda ma assimilata e dimenticata, comunque non esposta, organica e necessaria all’evidenza del racconto. Un’esperienza raccontata in termini letterari di grande e nuova qualità.

1° classificato

per la descrizione più suggestiva della vita in carcere

La teoria della distruttività
di Angelo Rubiu

(…)
Pensando a mio padre, la prima cosa che mi viene in mente è la sua bicicletta, le sue bestemmie e le maledizioni e le imprecazioni che scandiva ogni volta che si rompeva. La sua vita, il lavoro e l’esistenza stessa della sua famiglia erano legati al funzionamento di quella bicicletta.
(…)
Lavorava in una miniera della Carbonsarda, scendeva a migliaia di metri di profondità e scavava a mano chilometri di gallerie, armato con puntelli e travi di legno. Usciva prima di giorno e rientrava la sera tardi, distrutto dalla stanchezza e annerito dalla polvere di carbone. Non esistevano le docce e, quando rientrava a casa, mia madre l’aspettava con la sedia di giunco e con la catinella dell’acqua calda. Lo faceva sedere, gli toglieva le scarpe, le calze nere e gli lavava con dolcezza i piedi e le gambe.
(…)
Eravamo cinque fratelli e due sorelle e nessuno andava d’accordo con l’altro, trovavamo sempre qualche motivo per litigare. Un giorno, mentre mia madre preparava il pane, io e mio fratello, che dormivamo sullo stesso letto, litigammo e io gli sferrai un calcio nel basso ventre e lo feci finire a terra dolorante. Scappai per non essere preso da mia madre, che afferrò il primo oggetto che le capitò e me lo lanciò dietro. Caddi per terra svenuto, quel coltello mi si era ficcato proprio all’altezza della milza e ancora ne porto il segno.
(…)
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate”: queste erano le parole che Dante vide scritte sulla porta dell’inferno. Queste erano le parole che io pensai e immaginai scritte nel famigerato portone del manicomio di Aversa, quando lo varcai la prima volta.
Mi mandarono lì per osservazione, dopo essere stato legato per quaranta giorni a uno dei letti di forza del carcere di Alghero, e poi mi spedirono a Sassari, dove fui nuovamente legato per una settimana, e da lì mi misero la camicia di forza e mi spedirono al manicomio di Aversa. Come varcai il portone, mi portarono in Matricola e, sbrigate le solite formalità, mi consegnarono a due energumeni totalmente pazzi che mi aspettavano con delle cinghie di canapa. Mi presero, mi tolsero la camicia di forza e mi denudarono completamente, mi cucirono con dello spago le lunghe cinghie ai polsi. Mi trascinarono per le cinghie e mi portarono nudo per ottocento metri fino al camerone dove c’erano già una trentina di internati legati a quei terribili letti. Delle grandissime culle in ferro con un pesante materasso di crine bucato al centro per evacuare e fare tutti i bisogni. In questo letto venivi poi fissato con altre quattro cinghie, due alle caviglie, per farti giacere con le gambe aperte, una all’altezza del petto, e un’altra, la famosa “fiorentina” che ti passava sotto la gola per girare attorno alle ascelle. Tutte le cinghie terminavano alle sbarre intorno al letto. Questa era sicuramente la prova più dura, dovevi riuscire a mantenere la massima calma, non strillare, non lamentarti per le mosche che, soprattutto d’estate, ti divoravano, mangiare quello che i due energumeni ti imboccavano. Anche la più piccola reazione, oltre alle botte, poteva scatenare subito l’intervento coatto degli infermieri e delle loro siringhe con psicofarmaci a base di Serenase, Haldol e altri intrugli. Al mattino uno degli energumeni ti puliva il sedere con una scopettina di saggina e svuotava il secchio sotto al buco del materasso. Dopo una settimana mi slegarono, mi misero una fascetta con i braccialetti ai polsi per accompagnarmi dal famoso direttore Ragozzino. Suicidatosi, poi, nel carcere di Secondigliano dove era stato rinchiuso per la morte di una decina di suoi ricoverati. Dopo aver atteso per una decina di minuti di fronte al suo ufficio e con le spalle alla sua scrivania, mi chiamò per cognome, mi fece girare di faccia e mi domandò subito il motivo per cui ero finito nel suo istituto.

Motivazioni

Frasi concise e icastiche, descrizioni toccanti, l’intensità delle riflessioni, la storia di Doina coinvolge fin dall’inizio e sino al tragico epilogo. E induce il lettore a interrogarsi sul destino, sul caso, sulla fatalità.

2° Classificato

per la migliore storia e per la più intensa riflessione interiore

La ragazza con l’ombrello
di Doina Matei

Paura. Quell’ombrello, contro la paura. Me la portavo dentro, quella paura, come una pianta con radici profonde. E l’ombrello era lì, tetto, riparo, protezione, difesa.
(…)
Per me ebbe prima suoni confusi, la Paura. Suoni cupi e indistinti, fino a quando presero sostanza e corpo sul volto illividito di mia madre.
A Bucarest era la seconda metà degli anni Novanta, quando questo accadeva. E a Bucarest – dove ero nata nel 1985, quarta di cinque figli – la mia famiglia, insieme alla città tutta, sopravviveva in affanno.
(…)
Non ci fu festa, in famiglia, per i miei quattordici anni: sono pochi all’anagrafe, quattordici, molti quando le difficoltà e i disagi invecchiano i tuoi giorni.
Com’ero io a quattordici anni? Molto carina, credo. Me lo diceva lo specchio. Me lo dicevano gli sguardi unti dei ricchi e noti maiali del quartiere. Un giorno prese a dirmelo, convincente e dolcissimo, anche un ragazzo. Ventidue anni, Valentin era carino e gentile, le sue attenzioni adulte mi facevano sentire grande e importante. Io forse non lo amavo, ma cosa ne vuoi sapere a quattordici anni dell’amore!
(…)
Quando arrestano il tuo uomo e tu non sai perché, il cuore ti si ferma nel petto. Rubava, Valentin.
(…)
Avevo diciassette anni e due bambini da crescere, ma scelsi di rimanere sola in un mondo nel quale sapevo muovermi come un cieco senza il cane guida.
(…)
Me li ricordo tutti, questi “amici”: così umani e gentili; così premurosi e solerti; così amorevolmente attenti ai miei problemi e al benessere mio e dei miei bambini: così partecipi della necessità assoluta che io avevo di possedere una casa tutta mia, per realizzare il sogno di tenere i miei figli con me. Un sogno che – bastava lo volessi! – era così facile, ma così facile e semplice da realizzare, da non meritare neppure il disturbo di sognare. Dai, vieni, ti portiamo in Italia!
(…)
Paura e orrore. Un’occhiata, un prezzo, un patto. E poi l’incognita perenne di un volto, forse maschera di un maniaco crudele. Vivevo le notti di marciapiede con lo strazio umiliato di una rinnovata violenza.
Fradicia di me stessa, ogni volta, ogni volto, ogni incontro volevo vomitare. Quelle mani sporche di sperma e di sprezzo mi insudiciavano il corpo, ma l’anima era altrove, volava alta e lontana. Quella melma, quel fango che mi scorreva addosso – mi ripetevo – erano cemento e calce per costruire il mio sogno più grande, la casa per i miei bambini. E quel pensiero forte, costante, un’ossessione quasi, mi aiutava a reggere l’umiliazione e la violenza di quel lurido mercato di carne.
(…)
Mi avevano raccontato piazza di Spagna, il trionfo di colore delle azalee, quella luce speciale che attraversa la grande scalinata. Un ricordo da non mancare. Con una compagna di lavoro, decidemmo di prendercela, quella mattinata, come due turiste svagate.
Il cielo brontolava di nuvole quella mattina. Avevo con me l’ombrello.
(…)
Folla nel vagone. Solita calca idiota davanti alla porta in prossimità di fermate. Serro la mano sulla sbarra che costeggia i gradini. Una ragazza sguscia veloce sotto il mio braccio, mi si piazza davanti. Stazione Termini, la metro si arresta.
(…)
Dentro ho l’eco di un urlo che lacera, vedo la ragazza mettersi la mano sul volto.
(…)
Era romana, Vanessa, aveva ventitré anni e il sorriso malinconico e buono. L’ho rubato da una foto su un giornale, quel sorriso, perché nulla di lei ricordo per quei minuti tempestosi nei quali le nostre vite si sono sfiorate, per saldarsi per sempre in un nodo violento.

Motivazioni

Frasi concise e icastiche, descrizioni toccanti, l’intensità delle riflessioni, la storia di Doina coinvolge fin dall’inizio e sino al tragico epilogo. E induce il lettore a interrogarsi sul destino, sul caso, sulla fatalità.

2° classificato

per la descrizione più suggestiva della vita in carcere

Ma non può piovere sempre
di Agnese Costagli

Distribuzione latte e caffè d’orzo
Consegna del pane
Distribuzione del pranzo
Aria
Terapia del pomeriggio
Consegna della posta
Distribuzione della cena
Terapia della notte, in cui caterve di sonniferi e psicofarmaci ci mettono tutte a nanna tranquille e beate.
Giorni tutti uguali e lentissimi, scanditi da sfortuna-solitudine-stupidità.
(…)
Per ammazzare il tempo (dovrò mettere l’avvocato anche per questo?), da quel gran genio che sono fumo e mangio, così oltre ai problemi già esistenti sto ingrassando in modo vergognoso, e non è una questione secondaria.
(…)
Ma come diavolo ci sono finita dentro a questo incubo a occhi aperti? Da quale punto preciso della mia vita ho iniziato a prendere questa discesa precipitosa?
La sfortuna. La sfortuna ha avuto un ruolo determinante, almeno all’inizio di questa storia, che comincia trentasette anni fa. (…)… ho accolto in casa un amico che si era innamorato di me: Gargamella. Napoletano fatto e finito, uscivamo sempre, andavamo a ballare, stavamo bene e ho finito con l’innamorarmi anch’io di lui. Ma non c’era verso che si cercasse un lavoro, trovava tutte le scuse per non farlo. È andata avanti così per un paio d’anni e il 29 ottobre 1999 è nata Bella, dolce come un sogno, un raggio di sole.
(…)
Mi sono ritrovata tossica in un battito di ciglia. Non era passato nemmeno un anno ed ero in carcere pure io. Da un momento all’altro ho perso i figli, affidati alla mia ex suocera, che mi odia e m’incolpa di tutto, anche del cancro e della fame nel mondo. “Dentro” ho avuto una carriera sfolgorante. Dal 2004 a ora non mi sono fatta mancare niente, il giro completo nel tunnel dell’orrore: carcerazioni, assistenti sociali, ricadute, il Sert…
(…)
Ho pensato di farla finita, ho valutato i pro, parecchi, e i contro, uno solo ma decisivo: non posso permettermi di lasciare questa valle di lacrime e lasciarci dentro la mia mamma, più sola e disperata di prima, con il mio cane, che adoro, e un’intera famiglia di gatti. Oscillo fra due prospettive:
Fare una strage e portare tutti con me. Impossibile;
Restare e vedere che succede. Praticabile.
(…)
Quella attuale è la carcerazione numero quattro, sono una frequentatrice assidua. E pensare che prima del 2004 ero un angioletto, mai presa neppure una multa.
(…)
Siamo chiuse in una cella quattro per tre e condividiamo tutto: sigarette shampoo sofferenze e sorrisi. Un sorriso luminoso e coinvolgente lo aveva Fantaghirò, la compagna di cella della mia carcerazione numero due, ed era anche intelligente e focosa, da buona siciliana; ed era, ed è, una persona più unica che rara con un caratterino impossibile e un cuore grande. Dopo la diffidenza iniziale, siamo praticamente entrate in simbiosi, in un’amicizia che va oltre il carcere, anche se le nostre strade si dividono, perché io faccio uso di droga, mentre lei la odia.
(…)
A volte mi chiedo: ho già subito la trasformazione completa? Sono diventata irreversibilmente refrattaria a un destino minimamente positivo? Sono una cosa inutile, con un passato così come l’ho descritto e un futuro da testa di cazzo? (Si può scrivere testa di cazzo?)

Motivazioni

Il racconto, non ignaro di seduzioni narrative, si giova di un parlato vivace che raggiunge con immediatezza il lettore. Il tono sarcastico con cui viene raccontata la vicenda e la stessa vita carceraria si alleggerisce spesso nel sorriso. Così che, in definitiva, un’umanità densa e toccante arriva a prevalere nella scrittura che è allo stesso tempo confessione e denuncia, diario sofferto e memoria attenta.

3° Classificato ex aequo

Per la migliore storia e per la più intensa riflessione interiore

Uno dei ragazzi di corso Trieste
di Michele Celano

(…)
Dalla scuola alla sezione del Msi fu un piccolo gioco, quasi di ruolo. Ma la militanza mi stava stretta, perché troppo legata a dinamiche conformi a quella bugia che sono i partiti.
(…)
Quindi feci mio il discorso più nazionalpopolare del movimento politico di Terza Posizione, che in quegli anni iniziava a prendere forma nelle scuole e nei quartieri, e mi appariva meno legato alle logiche di potere.
(…)
Ogni quartiere era un territorio da difendere. Ogni via, ogni cortile, ogni muretto era segnato dalle nostre scritte. Di solito erano slogan che inneggiavano alla lotta contro gli imperialismi americani e sionisti, correlati da una simbologia runica, usata in passato anche dalle SS. Ci eravamo messi in testa di appartenere a una razza superiore, che stava nel bene e nella ragione. Ogni piazza, ogni scuola doveva essere conquistata o difesa dalle intrusioni degli “altri”. Gli “altri” che chiamavamo zecche, pelosi, compagni. In realtà eravamo identici, ma abitavamo pianeti diversi.
(…)
La cantina era la base. Ci si ritrovava in quel posto perché lì tenevamo le nostre spade, le nostre daghe. In quel posto avevamo i nostri scudi, i nostri cimeli, i nostri elmi. Ma non era un gioco. Era una realtà. Molti dei componenti del cuib portavano in dote delle armi da fuoco…
(…)
Ricordo pomeriggi interi a leggere L’esperto balistico, un testo che girava tra chi voleva imparare a confezionare una bomba o a silenziare un’arma. Imparai come la peretta per il clistere, se applicata alla canna di una pistola semiautomatica di calibro medio (22 oppure 7,65), riesca a impedire, con la trattenuta del gas, il rumore. Può sostituire tranquillamente i silenziatori di fabbrica.
(…)
Il mio battesimo del fuoco fu davanti a un noto liceo classico del quartiere Italia. Noi ci vestivamo come loro, in maniera trasandata, e difficilmente prima di sentire l’urlo di guerra i rossi ci notavano. Sembravamo normali studenti con i maglioni larghi, i jeans scoloriti e le Clarks sabbia ai piedi. Nessuno del gruppo del Trieste indossava abiti come quelli dei ricchi pariolini o di quegli sfigati dei missini delle sezioni da cui ci differenziavamo per un ribellismo molto originale.
(…)
Gli “espropri” non erano monopolio dei gruppi extraparlamentari di sinistra o degli anarchici. La banca è il simbolo del potere e del dominio sul popolo, e per la mia mentalità dell’epoca aveva un significato anche piuttosto “cavalleresco”, poiché non davi fastidio ai più deboli, ma te la giocavi con i più forti, i più protetti, non solo dalle polizie ma dal sistema stesso. La carica di adrenalina e il senso di onnipotenza che si provava avrei avuto modo di sostituirli in seguito con altro a cui la militanza politica non faceva alcun riferimento.
(…)
Nel blitz che mise sotto processo l’intero movimento di Terza Posizione, non figurai. Non so se col senno del poi potrei dire di essere stato fortunato, perché anche in quel contesto mi ritrovai non solo spiazzato, ma senza più sapere chi ero e dove andavo.
(…)
L’eroina fu un’altra tappa e preparò le valigie di un viaggio che per un’infinità di anni non è potuto terminare in alcun porto.

Motivazioni

per “la capacità di raccontare con linguaggio agile e senza retorica il mondo e i pensieri di un giovane degli anni ’70, incredibili anni nei quali bastava un niente per oltrepassare un confine dal quale non si poteva più tornare indietro”.
Ne esce l’affresco di un’epoca, e una testimonianza di vita che segna profondamente.

3° Classificato ex aequo

per la migliore storia e per la più intensa riflessione interiore

Il viaggio
di Carmela Macrì

(…)
Mio Dio papà, sapessi quante lacrime non ti ho raccontato! Questi sei metri quadri mi hanno vista imprecare, ballare, cantare a squarciagola e piangere.
Mi hanno vista accendere una sigaretta dopo l’altra con la gola graffiata dalle urla che squarciavano il silenzio dell’estate.
Ho maledetto il tuo nome, preso a calci il blindato, e quando i piedi nudi mi facevano male, ho picchiato i pugni, e poi le mani, ed erano gonfie e rosse. E ho usato il bicchiere, il piatto, la caraffa, il pane per aprire quella porta… ma poi sono scivolata con la schiena sul ferro rovente e gelido, lentamente, e non c’era più niente davanti a me. Un pezzo di cielo entrava dalle grate e mi raccontava che fuori era giugno, e gli uccelli cantavano, ma non potevo sentirli, c’erano solo dei corvi neri, quelli che t’immagini in una foresta buia e umida, in inverno. Invece era giugno, e il sole splendeva davvero, ma io non potevo vederlo.
(…)
È inverno, ha nevicato tutta la notte, la città è avvolta da un candore ancora immacolato. Guardo i fiocchi venire giù, leggeri, morbidi, e mi avvolge una strana sensazione di pace.
Tony è morto. Si è suicidato tre settimane fa. Ho ancora addosso l’odore del sangue, lo sento dappertutto, nel mio caffè, tra le lenzuola, nelle stanze silenziose e pulite che attraverso senza voltarmi mai, che chiudo sempre a chiave.
Ho gli occhi segnati da un pianto che non conoscevo, quello della morte, del dolore. I suoi segni ti s’imprimono sul viso, e non si cancellano mai.
Tony è ancora lì, lo vedo mentre scendo le scale volare al mio fianco, poi giù, a terra. Ha una gamba ripiegata in modo innaturale, la faccia contro il pavimento, e tutto rimane fermo su quel tratto sacro che conserva nel suo silenzio le urla, il tempo infinito di un battito che ha smesso i suoi rintocchi. Di un respiro spezzato con violenza. Lo avevo conosciuto a sedici anni.
(…)
Ero l’ultimo giro di carte, e sarei rimasta al tavolo fino alla fine, perché adesso ero davvero grande, e non danzavo più sul mio futuro. Erano i piedini delle mie bambine a lasciare impronte su quella spiaggia bianchissima, loro avrebbero danzato, mentre s’inseguivano giocando e accapigliandosi per casa, le avrei protette a costo della mia vita.
Tony mi chiamò. Succedeva spesso mentre dormivo, trasalivo al suono della sua voce e mi precipitavo da lui, per cercare di calmarlo, per evitare che le bambine si svegliassero. Quella notte, però, qualcosa m’inchiodò al letto, gli occhi sbarrati a fissare il buio senza quasi respirare, il cuore in gola, non riuscii ad alzarmi.
(…)
Raccontai della corda, del sangue.
Le mie mani sospese nel vuoto, a indicare il volo. Le mie mani strette, mentre scivolava.
Le mie mani al collo, mi graffiavano forte mentre raccontavo che c’erano troppi nodi, ed erano fitti, e non ero riuscita a farlo respirare. Piangevo senza neanche saperlo, fiumi di liquido caldo straripavano dai miei occhi, bagnandomi la maglietta, il viso, le labbra da sentirne tutto il sapore.
Il mio corpo sembrava svuotarsi a quel pianto incontrollato. Rientrai a casa. Sul pianerottolo c’era una chiazza lavata via, un pezzo di corda.
(…)
Quella stessa notte, con il cuore che mi scalpitava in petto, avevo nitida davanti a me la visione del futuro.

Motivazioni

Il racconto pone in risalto un affanno ora sconfortato, ora gioioso, e rivela negli scarti imprevisti un sottile disegno di rivelazione e di salvazione. Riattraversando la sua difficile storia, l’autrice si muove fra sentimenti diversi e opposti, pure non dimentica un solo momento il bisogno di consegnare efficacemente a chi legge le sue verità e le sue perduranti speranze.

3° Classificato ex aequo

per la più intensa riflessione interiore

Il tempo degli scugnizzi
di Ciro Mariano

…il vero protagonista della vicenda non sono io, ma i ragazzi dei vicoli di Napoli, gli scugnizzi.
Una razza estinta nell’indifferenza generale e che nessuno ha mai avuto la sensibilità di ricordare. Eppure, questi figli del popolo, anche se un po’ lazzaroni, erano parte della storia di Napoli. Inoltre, non meno trascurabile, erano fatti di carne e ossa, come tutti gli esseri umani.
Il mio nome è ben conosciuto nell’ambiente malavitoso napoletano, sono schedato come capo storico dell’omonimo clan Mariano, meglio noto come “’o Picuozzo”.
(…)
Tutto ebbe inizio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Voce Carcere annunciava che si stava costituendo una consorteria criminale denominata NCO: Nuova Camorra Organizzata.
(…)
Devo precisare che i propositi erano assai accattivanti, specialmente per i giovani che orbitavano nell’ambiente malavitoso. La parola d’ordine che li affascinava era “Napoli ai napoletani”, cioè uscire dal dominio degli Stranieri. Proprio così, c’erano gli Invasori che, appoggiati da pochi infedeli, facevano di Napoli un porto di mare, spadroneggiando sulle attività lecite e illecite, come il contrabbando di sigarette, molto ambito per l’enorme giro di denaro e il grande guadagno. Questo diede inizio alla guerra del poveri.
(…)
I “cani e porci” diventarono dalla sera alla mattina “uomini d’onore” che si pavoneggiavano al grido di battaglia “o con noi o contro di noi”. In spregio ai morti. Così ebbe inizio l’epurazione, con centinaia di morti ammazzati. Non c’era giorno che per le strade di Napoli e provincia non si sparasse, lasciando sul selciato il cadavere intriso di sangue di qualche figlio di mamma, colpevole solo di voler rimanere un semplice scugnizzo senza vincoli né padroni, soprattutto deciso a non macchiarsi le mani di sangue in una guerra fratricida che non gli apparteneva.
(…)
Per tutti quelli che hanno la memoria corta, in quel periodo c’è stata la “ricostruzione”, con grandi appalti (un fiume di denari) che sono andati anche ad arricchire e rafforzare il sodalizio criminale. Questa è cronaca. Un altro significativo evento che contribuì alla crescita della Nuova Camorra Organizzata fu il sequestro a opera delle Brigate rosse dell’assessore democristiano Ciro Cirillo. Questo consentì ai camorristi di camminare con il “lasciapassare” in tasca, che li metteva al riparo da eventuali controlli di polizia, e dava loro accesso alle carceri, dove si concordavano strategie e alleanze, interessi economici, favori da fare – soprattutto da pretendere –, e inoltre si predisponeva il trasferimento dei detenuti da una prigione all’altra qualora ce ne fosse stata la necessità.
Nel frattempo, il gruppo che si contrapponeva alla Nuova Camorra Organizzata, cioè la Nuova Famiglia, prendeva corpo e incominciava a espandersi sul territorio, collocando in ogni quartiere della città i suoi responsabili. La parola d’ordine era sempre “O con noi o contro di noi”. Cambiano i suonatori, ma la musica è la stessa.
Da questo momento in poi non è un’altra storia, ma la storia.

Motivazioni

La storia degli scugnizzi è di straordinario valore narrativo e antropologico, di testimonianza; inedita l’analisi della mentalità dei nostri anni ma applicata ai camorristi, con i valori “della strada” cancellati dal nuovo egoismo e protagonismo di tipo televisivo.

3° classificato

per la descrizione più suggestiva della vita in carcere

Le parole mai dette
di Mario Merolla

Vi presento Monaco, mio amico per soli sei mesi e basta.
(…)
Quella sera si presentò con un sorriso che un po’ ci lasciò offesi; in carcere, in cella, non ci si presenta così!
(…)
Son tanti anni che non vivo più a Poggioreale e immagino che in quei posti nulla sia cambiato da allora, specie le leggi. Leggi più vecchie di quelle mura, uniche testimoni di come possa esser pericoloso per chiunque infrangerle in qualsivoglia maniera. (…) leggi che non stanno scritte da nessuna parte, com’è giusto credere non sia mai esistito un giorno a partire dal quale i detenuti abbiano deciso di obbedire e rimettersi a queste leggi; fatto sta che a Poggioreale non ti si avverte di niente e ti si punisce su tutto, a patto che non si sia capaci di indovinare tutto da soli o farsi istruire da un compagno di cella. Ed è quel che capitò a Monaco quella sera: che al rito dell’accoglienza si aggiunse un’attenta, ampia premessa sulle prescrizioni esclusive di Poggioreale, fatta e data a voce dal suo compagno di cella, il migliore, come starete a vedere, a rendergli la vita impossibile.
Costui gli si sedette accanto e così prese a dirgli: «Il nostro numero è fissato a undici detenuti, dodici compreso te, e siamo persuasi che in altre celle della stessa metratura ne stipano un numero uguale e in altre anche un numero maggiore. Lo spazio è quello che è e il tempo pare non essere sempre così rapido nello scorrere. Perciò, sappi che in queste condizioni bisogna vivere e convivere. Qui con noi starai bene, vedrai, starai meglio se fai tue le raccomandazioni mie che oggi ti consegno, e giungerai sano e salvo al tuo fine pena.»
(…)
«Piace aggiungere, carissimo, che dormirai sulla terza branda montata a mezzo metro dal soffitto e potrai far la doccia tutti i giorni, ovviamente con acqua fredda; quella calda viene erogata una sola volta alla settimana, o meglio sarebbe dire, veniva erogata un solo giorno alla settimana. Non lagnarti per questo! Ci sono stati momenti peggiori, giorni in cui pure quella fredda veniva erogata una sola volta ogni sette giorni.»
(…)
Dovete sapere infatti che Monaco, nonostante chinasse sempre il capo a dir di sì a ogni raccomandazione che quello gli sgranellava, mostrando di aver compreso alla lettera il pensiero del suo compagno di cella, fin da subito fece tutto il contrario di quello che gli venne, per così dire, imposto.
(…)
Una notte venni svegliato dal mio sonno da uno dei nostri che m’invitava gentilmente a seguirlo nello stanzino dove ad attendermi c’erano quasi tutti i compagni di cella. Non credetti ai miei occhi: una riunione abusiva nel cuore della notte per celebrare un processo illegale contro Monaco, per quell’occasione lasciato al suo riposo.
(…)
Non osai opporre resistenza a quei ragionamenti da agguerriti. Piuttosto, Poggioreale a me sembrava una sosta obbligata per tutti quelli che, come me, poco sapevano di legge, e allo stesso modo forse la legge interessava poco a tutti quelli che finivano a Poggioreale.
(…)
«E, a proposito, come credete di farlo fuori?» chiesi a lor signori.

Motivazioni

Sapiente, divertentissimo racconto di un episodio a Poggioreale; il ricordo – “ritoccato” ad arte – di un compagno di pena con valori diversi, diventa l’occasione narrativa di un ritratto del carcere, nelle abitudini e nei giorni di rivolta.

Non so più se ricordo
di Davide Mesfun

(…)
Davide in un certo senso si sentiva la “pecora Dolly” di suo padre. Il suo clone. E ne andava spudoratamente fiero. Il suo aspetto assomigliava sempre più a quello di suo padre: il taglio degli occhi, i capelli neri ricci, la carnagione olivastra, l’altezza, persino l’espressione del viso e il modo di gesticolare con le mani.
D’un tratto però la sua famiglia fu scossa da un violento tsunami. Una mattina di giugno (un mese che segnerà spesso la sua vita), dalla finestra della camera dove dormiva con i suoi fratelli, un forte rumore interruppe la quiete. Entrarono prepotentemente una ventina di persone incappucciate, pistola alla mano. Davide era già sveglio, e per paura tentò una fuga in camera di suo padre. Tentativo inutile e doloroso: fu fermato con un calcio nei reni.
Quelle persone incappucciate erano i Falchi della squadra antidroga, e stavano arrestando Luciano per traffico internazionale di cocaina.
Da quel giorno Davide rivide Luciano solo durante sporadiche visite in carcere. Davide perse il suo eroe, e quella lontananza, per un trasferimento in un carcere della Sardegna, e i problemi economici legati anche alla possibilità di vedersi segnarono un punto da cui non avrebbe mai fatto ritorno. Da lì a poco morì anche sua nonna, punto di riferimento per tutta la sua famiglia.
Per Davide sembrava non avere senso più niente, la sua famiglia senza il suo idolo gli stava stretta, e persino una città come Napoli gli stava stretta. Così partì, lasciandosi tutto alle spalle. La sua meta era Roma.
(…)
Istruzioni per l’uso di San Vittore
Benvenuti a S. Vincent, dove ti fermi e non vai avanti,
Quattro mura fatiscenti, e il primo impatto con tre agenti,
Quattro foto e “dammi l’impronda”, poi “fatti il sacco e vai in rotonda”,
Dopo visita ben accurata, infilano in una cella ben affollata,
Un po’ di caffè, ’na sigarett’, e comincia la tua disdett’,
Quattro compagni in uno stanzone, complimenti è iniziata la tua detenzione.
(…)
Tutti pensano che una persona, finita in carcere, abbia uno shock che funzioni da deterrente. Forse è così, ma non lo fu per lui. Davide in quei mesi in carcere aveva stretto delle amicizie che gli davano molta autonomia d’azione a Milano, e il fatto che fosse stato “dentro” era solo una tacca in più, qualcosa di cui vantarsi, qualcosa che lo faceva sentire un “duro”.
(…)
Il tempo scorreva senza avere nessuna funzione, con tutte le problematiche che comporta un condominio superaffollato, con tutti i suoi colori, subendo anche le tonalità più grigie, e affrontando le conseguenze del personaggio che si era creato nel suo microcosmo. I suoi magoni erano attutiti dalla possibilità di lavorare; diventando il cuoco del carcere usufruiva di un minimo di autonomia, di un posto di valore nella gerarchia dei lavoranti detenuti, e nello stesso tempo passò nella sezione di San Vittore chiamata “Nave”, un’area sperimentale per tossicodipendenti…

29 settembre. Roma-Salerno
di Cosimo Rega

Il sabato era un giorno speciale, era giorno di colloquio. Avevamo un’ora tutta per noi. Un’ora con mia moglie per cancellare le altre trecentotrentacinque. Un’ora sola per scrollarci di dosso le tensioni e le frustrazioni accumulate durante la settimana. Un’ora per vivere il nostro amore. Un amore vero, tenace, da vivere in un luogo dove l’amore è proibito.
Anche quel sabato ingannai l’attesa concentrandomi sui soliti rituali: doccia, barba, pantalone e camicia pulita, scarpe lucide e un’abbondante spruzzata di Tesori d’Oriente, l’unico profumo consentito che, per un attimo, mi illudeva di essermi tolto di dosso l’odore del carcere.
Quando notai l’espressione tesa sul volto di Gelsomina capii che quel giorno non avremmo pronunciato parole d’amore. «I carabinieri di Salerno hanno telefonato a casa di nostro figlio»
(…)
Il poliziotto che mi attendeva era una donna. Seduta davanti al computer, sfogliava le carte di un fascicolo. Cercai di capirne la consistenza: era di parecchie pagine. Non un buon segno.
«Lei si chiama?» mi chiese senza guardarmi.
Risposi rapidamente a tutte le domande di routine, volevo che arrivasse subito al dunque.
«Scusi, potrei sapere di che si tratta?» le chiesi con gentilezza.
«Le devo comunicare una chiusura d’indagini.»
«Quali indagini?».
La donna sfogliò le carte, poi lanciandomi uno sguardo sfuggente, annunciò: «Omicidio».
«Omicidio?» risposi con tono preoccupato.
«Dopo si leggerà le carte. Firmi qui!»
INDAGATO
in ordine ai seguenti reati ipotizzati: in concorso con Forte Antonio, e Forte Gennaro (nei confronti si è proceduto separatamente) nonché con Visciano Angelo, e Manzi Michele Arcangelo (nel frattempo entrambi deceduti):
a) per il delitto previsto e punito dagli artt. 110. 575-577, 3 e 61, 2 c.p. Perché agendo con premeditazione in concorso tra loro e con altre persone allo stato non ancora identificate, Forte Antonio e Forte Gennaro quali rappresentanti in zona dell’associazione camorrista denominata “Nuova Famiglia” unitamente al Visciano in qualità di mandanti, il Rega e il Manzi quali esecutori materiali, cagionavano la morte di Aconcia Vincenzo esplodendo contro il predetto un colpo di pistola cal. 45 che lo attingeva al capo.
Delitto commesso in Salerno il 13 giugno 1990.
L’alibi. Fu la questione dell’alibi il primo pensiero che occupò la mia mente.
(…)
Lo seguii lungo il corridoio con le poche cose che mi ero portato da Rebibbia. Si fermò davanti alla cella numero tre del piano terra.
Ero preparato al peggio, e invece mi trovai di fronte a tre ragazzi giovani, tutti di Napoli. Subito dopo, però, quando chiesi di andare al bagno, avvertii un forte disagio. Non per i ragazzi che si mostrarono subito gentili e disponibili, ma per me: dopo dieci anni di cella singola non ero più capace di condividere “certi” momenti con gli altri detenuti.
Quella notte non riuscii a prendere sonno e al mattino mi sentivo intontito e nervoso. Per fortuna era giorno di docce per la sezione perché a Salerno ci si lavava un giorno sì e uno no.
All’aria trovai una trentina di persone racchiuse in un rettangolo di pochi metri. Ci si pestava i piedi l’uno con l’altro. Mi sedetti su una panchina cercando di non intralciare la corsa. Qualcuno mi riconobbe e si avvicinò a salutarmi.

Riflessioni su una vita difficile
di Ferdinando Davide

(…)
Chi me lo faceva fare, valeva la pena di lavorare tutta la giornata per guadagnare quattro spiccioli come avevano fatto mia madre e mio padre? Mi sembrava di no. Non mi mancavano i soldi in tasca, avevo tempo libero per spenderli, in più in quel che facevo trovavo quella dose di adrenalina che rendeva “interessante” la mia vita. Era anche un mettere alla prova le proprie capacità umane, seppure in modo illecito, e poi era tutt’altro che al di fuori dei valori della “società” vestirsi firmato, avere macchine nuove e belle, case lussuose, fare tre mesi di vacanze nei posti più prestigiosi e costosi, ecc. Tutto questo grazie al denaro facile che mi girava in tasca, anche per il salto di qualità che avevo fatto nel mio nuovo “lavoro”. Non vado nello specifico, ma se guardate il film Gomorra, e in particolare l’attività che si svolge nelle vele di Scampia, capirete qual era.
(…)
Ma un vecchio detto recita: “Chi prima non pensa, dopo sospira!”.
(…)
Solo chi ci è stato e ha vissuto all’interno di un penitenziario può sapere che significa sopravvivere lì dentro. (…) tutto a un tratto mi ritrovai a dover affrontare cose e situazioni che credevo non esistessero. C’è da dire che sì, la sofferenza in carcere è la nostra, ma non esclusivamente: anche le nostre famiglie soffrono, non solo perché immaginano dove stiamo, ma anche perché farci una visita è una tortura vera e propria. Nel carcere dove stavo io, e cioè Poggioreale, una famiglia si presentava al portone d’ingresso alle sei del mattino, ma per colpa del sovraffollamento usciva, se tutto andava bene, non prima delle sedici. E tutto questo per un colloquio visivo di circa cinquantacinque minuti in una stanza insieme con altre sette, otto famiglie, ognuna composta da almeno tre persone. In carcere si vive spesso in sei, otto, dieci, talvolta dodici persone in diciotto-venti metri quadri di cella, naturalmente servizi igienici e cucina compresa, senza contare lo spazio occupato da brande per dormire, armadietti per gli abiti, tavoli e sgabelli per mangiare e per scrivere. Un’altra chicca del carcere di Poggioreale è che la doccia si può fare solo due volte alla settimana, all’esterno della propria cella.
(…)
È una lotta continua dove sei costretto a adattarti a troppe mentalità diverse tra loro e allo stesso tempo diverse da te; c’è anche da dire che si può fare tranquillamente amicizia, ma poiché quasi sempre è un’amicizia finta, di convenienza o addirittura con un doppio fine, l’abilità sta proprio nel saper capire e distinguere.
(…)
Si diventa diffidenti su ogni cosa: per esempio, se non ricevi la posta, pensi che te l’hanno cestinata, o che magari l’agente di sezione non ha voglia di consegnartela, persino che possa essere accaduto qualcosa di brutto a qualche familiare…
(…) Fisso la tv, ma con la mente evado. In carcere disagi e problemi non mancano mai, ma la drammaticità vera e propria si vive quando si raggiunge la sera: allora i pensieri assumono il totale e pieno controllo impedendomi di addormentarmi, e mi costa non poca fatica far terminare una giornata infernale per poi iniziarne un’altra.

Aurora
di Aurora Spanò

Signor giudice, volete sapere chi sono io? Ebbene, ascoltatemi.
(…)
Chi fosse mio marito cominciai a scoprirlo con il tempo, e a condividere con lui gioie e dolori. Il mio uomo e la sua famiglia, undici fratelli, erano importanti e rispettati in paese e in tutta la provincia, se non in tutta la Calabria. Le persone si rivolgevano a loro per avere quella giustizia che spesso la legge non riusciva a garantire, per questo motivo nei rapporti delle forze dell’ordine apparivano come dei fuorilegge e perseguiti e accusati di tutto ciò che accadeva in paese, anche quando non c’entravano nulla. A causa di queste dicerie, mio marito fu ricercato attivamente da tutte le forze di polizia e costretto alla latitanza. Fummo obbligati a incontrarci di nascosto…
(…)
Partii con la macchina e stavo per uscire dal paese, quando un’auto che mi stava seguendo mi si avvicinò e suonando il clacson mi invitò a fermarmi. C’erano due uomini, uno scese, si avvicinò al finestrino, riconobbi l’uomo che mi aveva portato il messaggio, «mi dispiace, signora, dobbiamo rimandare l’incontro, quel posto non è più sicuro, dobbiamo cambiarlo, le faremo sapere al più presto, speriamo, per il nuovo appuntamento». Ringraziai, quasi senza voce, e quando i due si furono allontanati, scoppiai in un pianto dirotto che durò per molti minuti e che interruppi soltanto per il timore che qualcuno potesse vedermi. Ci tenevo a mostrarmi una donna forte e coraggiosa, in fondo ero la donna del capo…
(…)
Una notte, prima dell’alba, sentii bussare alla finestra del salone al piano terra. Era un bussare leggero, come a non voler disturbare troppo, ero già quasi sveglia e mi svegliai del tutto, alzandomi allarmata; neanche i cani avevano abbaiato, com’era possibile? Presi il fucile che tenevo sempre carico nell’armadio, tolsi la sicura e scesi al piano di sotto con cautela, per non svegliare i bambini che dormivano tranquilli nelle loro stanze. Il bussare, ritmico, continuava, uscii dal retro e feci il giro della casa per sorprendere alle spalle la persona che stava battendo sui vetri della finestra. Appena girai l’angolo, imbracciando il fucile puntato verso una sagoma oscura piegata contro la finestra, non lo riconobbi dall’aspetto, ma riconobbi subito la voce che mi chiamava: «Aurora, sono io».
(…)
Ricorda, signor giudice, cosa accadde a quella donna tanti anni fa? Era una ragazza sveglia che sapeva farsi rispettare da tutti, uomini e donne che fossero, perché sapeva parlare e farsi capire, eppure fu causa di una strage della quale ancora si parla, tale fu l’efferatezza e la modalità d’esecuzione. La ragazza, signor giudice, apparteneva a una famiglia rispettata nel paese, e mai avrebbe dovuto comportarsi come ha fatto.
(…)
La prima coltellata gli spaccò il cuore, cadde gettando un urlo che svegliò il piccolo.(…) la donna, al piano di sopra, svegliata dal trambusto, si rese conto di ciò che stava accadendo e impugnò il fucile appeso alla parete, che teneva sempre carico; mentre gli assassini salivano le scale, lo puntò contro di loro e premette il grilletto ma qualcuno doveva averlo scaricato togliendo le cartucce, quindi anche lei venne colpita a morte. (…) Dopo avere compiuto il macabro rituale per connotare l’assassinio, tagliando un seno alla donna già morta, si avviarono verso l’uscita, lasciando un silenzio di morte alle loro spalle.
Lo strazio per quella strage fu immane, ma non era ancora finita.
(…)
Capisce ora, signor giudice, qual era l’ambiente nel quale sono vissuta? E come potevo, io, sottrarmi a queste regole?

Notte da ergastolano
di Carmelo Musumeci

Oggi è scattato l’orario invernale e ci hanno chiuso il blindato alle diciannove invece che alle ventidue: appena sentiamo il rumore del primo blindato ci affacciamo tutti ai cancelli per scambiarci la buonanotte e per un attimo sembra di essere allo stadio fra le urla e le grida che ci mandiamo dalle celle più lontane.
Subito dopo che chiudono il mio blindato mi guardo attorno e non so cosa fare, questa sera non c’è nulla da vedere alla televisione e non ho neppure voglia di leggere. E chissà perché sorrido pensando al rito stupido della buonanotte che ci scambiamo tutte le sere, in particolar modo con il compagno che sta di fronte a me, pure lui ergastolano. Che buona notte mai potrà essere… la nostra, semmai, potrà essere una notte eterna, ma non certo buona.
(…)
È facile, basta prendere un lenzuolo, tagliarlo, farci delle corde, legarlo alle sbarre… hai la libertà a portata di mano, o meglio, di collo. Il mondo là fuori per te è morto, ti è rimasto solo l’aldilà.
(…)
Accendo la radio e, combinazione del destino, stanno trasmettendo una canzone triste di Fabrizio De André: “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché con una corda al collo freddo pendeva Michè… tutte le volte che un gallo sento cantar penserò a quella notte in prigione quando Michè s’impiccò… però adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir…”.
Penso a tutte le notti inutili che ci saranno come questa e rifletto che la mia vita in questo mondo è finita, posso solo provare a vivere nell’altro mondo. Cicerone diceva: «Se ci sei tu non ci sarà la morte, quando invece ci sarà la morte non ci sarai tu». Quindi come farei a vivere nell’altro mondo se non credo che esiste l’aldilà…
(…)
Vigliacco, ma che stai facendo? Pensi a mangiare? Non hai le palle, fai questa cazzo di corda e mettitela al collo, ci leviamo il pensiero e ce ne andiamo, non mi dire che preferisci vivere anni e anni dentro una gabbia che volare in cielo, vedere le stelle…
Che male c’è andarsene nell’aldilà a stomaco pieno…
Prendo una decina di pomodorini, uno spicchio d’aglio, li cuocio dieci minuti, poi aggiungo olio d’oliva e basilico, e mentre rimetto il resto del basilico sulla finestra mi viene in mente che se domani non ci sono è meglio che lo consumi tutto.
L’acqua bolle, mentre sto mettendo il solito etto di spaghetti penso che nell’aldilà non c’è bisogno che mantenga la linea e ne calo due etti.
(…)
Non è che stai facendo tutta questa sceneggiata per trovare la scusa di mangiare più delle altre sere?
(…)
Questa notte il dolore è più forte delle altre notti.
Sì, sono pronto: mi convinco che questa notte mi sento così triste come non sono mai stato, lego la corda alle sbarre della finestra, salgo sullo sgabello, mi metto il cappio al collo… e penso alla mia famiglia.
(…)
Vivranno meglio, non ti preoccupare.
(…)
Suicidarsi è peccato!
Ora non trovare stupide scuse, ti ricordo che sei ateo e che non credi in Dio.
Sì, ma metti il caso che esiste?
Be’! Se è buono come dicono ti perdonerà e ti manderà in paradiso. Un grande filosofo ha scritto che sicuramente l’inferno è vuoto perché Dio è così buono che non ci terrà dentro nessuno.
Non vorrei, con il culo che ho, che iniziasse con me, scapperei da un inferno per entrarne in un altro.

Non più figlia della strada
di Elettra Ambrosini

(…)
Non ho mai dormito nell’appartamento dei miei genitori, perché la notte era il momento del massimo divertimento di mio padre; quanto a mia madre, faceva la ballerina in un night di Borgaccio, un piccolo paese che divideva Tavernelle da Calcinelli. Erano i primi anni Novanta e io ero incredibilmente triste.
(…)
Venne il 1997. Sveglia alle otto in punto, non un minuto in più, non un minuto di meno. A ogni secondo di ritardo corrispondeva uno schiaffo. “Vi educhiamo come i vostri genitori non sono riusciti a fare.” Eppure i miei avevano sempre usato lo stesso metodo, anche se né nel periodo in cui stavo a casa mia, né in quello trascorso in Casa famiglia, m’era mai parso di aver fatto qualcosa di particolarmente sbagliato.
(…)
Un giorno mi ferii con un coltello, con l’intenzione di deturparmi le vene, come avevo visto fare in uno dei tanti film che gli operatori del centro ci avevano costretto a vedere. Arrivò Luca, uno dei cinque che avevano reso la mia vita, e pure quella degli altri bambini e ragazzi costretti a permanere in quel luogo, più che un inferno.
(…)
«Andiamo a fare una passeggiata?»
Non avevo alternative. Se avessi dato una risposta negativa, mi avrebbe caricata in spalla a forza. Mi prese per mano, e per un momento sembrò genuinamente affettuoso. Ma a un tratto, senza alcun preavviso, mi scaraventò a terra, e il brecciolino che ricopriva il viale mi scorticò le ginocchia e i gomiti. Luca iniziò a ridere come un pazzo ma poi s’interruppe, per dirmi: «No». Che volesse dire io lo sapevo benissimo.
(…)
Era una sera come tante altre, pressappoco identiche a quelle degli anni scorsi, il marciapiede della stazione delle corriere su cui stavamo sedute feriva i nostri fragili ossicini… Le fronti grondanti di sudore freddo, le goccioline aumentavano progressivamente, mentre noi cercavamo di scampare al gelo che ci ghiacciava la schiena con vestiti e borse di stoffa usate a mo’ di scialle.
(…)
Ma improvvisamente due fari accecanti s’avvicinarono al marciapiede. Nella mia mente passò per un secondo, ormai che le speranze erano sopite, che quella macchina scura potesse appartenere a qualche forza dell’ordine che si apprestava a farci il controllo documenti, che noi ovviamente non avevamo.
(…)
“Ecco, eccoli gli stronzi” pensai ancora. E invece per me e la mia compagna non ci fu che da unirci in un tripudio di felicità: finalmente il nostro uomo era arrivato.

Demoni e Angeli… in carcere
di Fabrizio Forcina

(…)
Ero terrorizzato da quello che avevo sentito dire sulla vita dietro le sbarre: vessazioni, stupri e altro… Oggi sono perfettamente in grado di raccontare – non per sentito dire ma per ciò che ho vissuto in prima persona – quello che accade nell’ottanta per cento delle carceri italiane. La mia esperienza in merito si limita a Regina Coeli e Rebibbia, ma ho incontrato detenuti provenienti da tutti gli istituti di pena italiani…
(…)
Fui assegnato a una cella del 7° reparto, quello adibito ai nuovi arrivati. (…) Una forte spinta mi catapultò in un corto rettangolo con a destra un letto a castello di metallo, sopra la mia testa un televisore quattordici pollici acceso su un canale musicale, in fondo un lavabo e di poco a sinistra un water “alla turca”; un boato alle mie spalle mi avvertì che la guardia aveva chiuso le sbarre. Stavo lì in piedi come un salame, poi qualcosa attirò la mia attenzione… La branda di sotto era occupata e, forse per il trambusto, qualcuno si era svegliato. (…) Si erse davanti a me un uomo sui cinquant’anni, con baffi bianchi e barbetta incolta, il corpo pieno di tatuaggi, di cui uno sul petto che ritraeva la testa di una donna con il copricapo delle SS. Mi scrutò per quella che a me parve un’eternità, poi sorrise con gli unici cinque denti rimastigli e mi porse la mano. «Arthur» disse, «Fabrizio» risposi.
(…)
Mi toccò la cella numero ventisei al primo piano. Era in tutto simile alla cella del 7° che avevo appena lasciato, solo che era leggermente più grande; di contro, le brande erano tre, quindi lo spazio vitale si riduceva. Mi accolsero due ragazzi romani miei coetanei, Andrea e Stefano; di uno di loro ricordo anche il cognome perché fu la persona che con pochi ma efficaci “consigli” mi permise di rimanere vivo per i quattro mesi che dovevo ancora scontare.
(…)
Un giorno, durante l’ora d’aria, scherzando dissi a una persona: «Ma che cazzo stai a di’?», riferendomi a un banale discorso. Quando riaprii gli occhi vedevo le nuvole e la bocca era inondata dal gusto caldo e metallico del sangue. Mi alzai e fui subito di nuovo affrontato dal “pugile” che grugnì: «Quando parli con me, parla senza “cazzo”».
(…)
Ci eravamo accordati per dare una lezione a quei quattro nell’”aria” del pomeriggio. Ma io, da novizio, credevo che fossero solo parole destinate a trasformarsi in una semplice discussione verbale. Mai mi ero sbagliato tanto in vita mia. Anche Stefano mi avvisò che si faceva sul serio, ma risposi che sarei sceso anche io senza dubbio. Vedevo gente che rompeva lamette da barba e le saldava a fuoco nei manici degli spazzolini, altri mettevano il fondo della macchinetta del caffè in un calzino facendone una fionda mortale, altri ancora usavano i coperchi delle scatole di pomodori pelati che tagliano più dei rasoi…

Oradea
di Viorel Daniel Talos

«Timisoara è una città universitaria sita sul fiume Bega. È sede del castello Hunyadi del Quattordicesimo secolo e di una cattedrale greco-ortodossa. Una bellissima città di circa trecentomila abitanti». Si incominciavano a vedere le prime case. «Fra poco arriveremo. Non allontanatevi dal gruppo perché vi perdereste. C’è tanta gente, perciò dovremo restare uniti» raccomandò la prof
«Non vedo l’ora di visitare la cattedrale» mormorò Giulia.
«Spero che tu riesca ad arrivarci. Con tutta questa folla sarà sicuramente molto difficile muoversi e raggiungerla» osservai, guardando la marea di gente che invadeva in piazza.
«Anche se dovrò metterci tutto il giorno, la cattedrale la voglio vedere a ogni costo» ribatté, con una determinazione di ferro. Scoprivo con sorpresa un lato insospettabile del suo carattere. Quella ragazza mi piaceva sempre di più.
(…)
C’erano persone vestite di tutti i colori possibili. Formavano un immenso arcobaleno. Molti tenevano la fotografia del presidente sopra la testa. C’erano tricolori di tutte le dimensioni, dal più piccolo al più grande, che sventolavano nell’alitare del vento.
Raggiunsi Giulia e ci dirigemmo insieme verso quella moltitudine informe, sperando che ci lasciassero passare. La cattedrale si trovava in fondo alla piazza, alla nostra destra.
Il vociare era a dir poco ipnotizzante.
«Passiamo vicino al muro. Penso che sia più facile» propose Giulia.
«Non lo so. Mi sembra che le persone siano molto agitate. Sarà successo qualcosa» osservai, mentre cercavo di individuare un possibile varco che ci permettesse di guadagnare un po’ di spazio in direzione della cattedrale. Fu allora che vidi i camion dell’esercito con i soldati che scendevano schierandosi intorno alla folla e all’imboccatura delle uscite dalla piazza. (…)
Eravamo restati circa cinque minuti all’interno della cattedrale. Fuori la situazione era diventata assai diversa. La gente gridava. Gridava che ne aveva abbastanza del partito comunista e del presidente. Non riuscivo a credere a quello che sentivo. Molti, per meno di questo, erano stati mandati nei campi di lavoro, sia al canale Danubio-Mar Nero, un canale artificiale che era stato costruito in quel periodo, sia alla Casa del Popolo, il secondo edificio al mondo in ordine di grandezza dopo il Pentagono. E non si era più saputo nulla di loro. Pensai subito che quella storia non sarebbe finita bene.
(…)
La gente non la smetteva di agitarsi e protestare, per nulla intimorita dalle minacce. Lo sventolio delle bandiere col buco divenne sempre più frenetico. Continuavano a gridare: «Giù il comunismo!… Giù il presidente!… Giù il partito comunista!… Viva la libertà!».
Un ufficiale dell’esercito e uno della polizia presero posizione davanti ai microfoni e dissero quasi all’unisono: «Vi ordiniamo di smettere con i disordini. Alcuni di voi saranno tratti in arresto. Seguite alla lettera le istruzioni che vi daremo…». Dissero anche qualcosa d’altro che però non sì udì perché la folla era esplosa, raccogliendo sassi e tirandoli addosso agli ufficiali. Per difendersi i due si allontanarono dai microfoni, rifugiandosi nell’edificio.
L’intera piazza era ormai una babele. Tutti urlavano a squarciagola.
Guardai verso le uscite e vidi che i soldati serravano le file coi fucili imbracciati. Gli ufficiali parlavano nelle ricetrasmittenti, sicuramente ricevendo ordini. Afferrai per mano Giulia e provai ad allontanarla dalla piazza e da tutto quel casino.
«Lasciami protestare. Non vedi che tutti lo fanno?» si ribellò agitandosi ancora di più. Non seppi che fare e le rimasi vicino.
Fu un attimo. Con un crepitio assordante i soldati aprirono il fuoco. Non mi resi subito conto di quello che succedeva perché non avevo mai sentito sparare prima. Capii solo che c’era qualcosa di nuovo perché la gente iniziò chi a buttarsi a terra, chi a scappare, chi a gridare.
Mi girai verso Giulia e vidi che anche lei era scioccata quanto me. Non capiva. Guardai ancora verso i margini della piazza e vidi che i soldati avanzavano verso il centro sparando alla gente.

I sentieri del tempo
di Sebastiano Prino

Per Elias la vita a Seuna, il paesino dove era nato, non fu meno dura di quella di campagna.
In un primo momento venne impiegato per poche lire al giorno presso una latteria: distribuiva bottiglie di latte a domicilio per tutto il rione, compresa la canonica di don Cubeddci dove, per volere paterno, non aveva mai messo piede, sviluppando una forte repulsione per i dogmi religiosi.
La sorella del prete, che svolgeva anche le funzioni di perpetua, ogni volta che Elias si presentava davanti alla sua porta non mancava mai di dirgli una parola gentile. Poi però, con fare indifferente, si chinava ad aggiustargli le braghe perennemente in bilico sui fianchi esili, indugiando con le dita sui genitali, che nei primi giorni si erano contratti per poi man mano esibirsi nel loro turgore.
Le visite di Elias alla canonica si fecero frequenti, fino a che il ragazzo cominciò a girare indisturbato tra le stanze della casa. La donna cominciò a ricompensarlo per gli scampoli di tempo che lui le dedicava dandogli qualche soldo, che aveva il duplice scopo di ingraziarselo ancor più e di cucirgli la bocca.
(…)
L’adolescenza continuò a scorrere per Elias vedendolo impegnato in mille lavoretti, ai quali si aggiungevano altrettanti piccoli furti. Riuscì per un po’ a evitare i rigori della legge, ma non la nomea di ladro, che si accresceva a ogni ruberia perpetrata nelle case o nelle campagne del paese, innescando così quel circolo vizioso che in Barbagia viene descritto con il detto: “neche o non neche né praughet berbeche”. Fedele al cliché che gli era stato cucito addosso sull’immutabilità del suo destino, Elias continuò le sue malefatte, sordo a ogni richiamo e con un solo obiettivo nella mente: diventare ricco.
(…)
La proposta di partecipare a un sequestro di persona gli giunse improvvisa ma non inaspettata da parte di individui che non appartenevano alla sua cerchia.
(…)
L’auto del possidente agrario si materializzò avanzando con lentezza poco prima dell’imbrunire. L’uomo alla guida, dal viso rubicondo su cui erano inforcati spessi occhiali da presbite, pareva volersi consegnare volontariamente nelle loro mani.
D’un balzo gli furono addosso con le armi spianate.
(…)
L’alba, attesa con impazienza, lo trovò intento a cercare di capire dove si trovava, dopo aver camminato, e a tratti corso, per tutta la notte, nell’infantile convinzione che la distanza posta tra sé e il luogo della sparatoria lo avrebbe separato per sempre dai fatti della sera prima.
(…)
Mentre lasciava il colle in cui si trovava per incamminarsi verso le pendici di quel massiccio granitico, intravide sul versante opposto un gruppo di persone che, con una goffa andatura, si dirigeva verso di lui. Si rannicchiò in un anfratto ai margini del sentiero e aspettò il passaggio di quella strana comitiva: dei fedeli a piedi scalzi, probabilmente per sciogliere un voto, sfilarono davanti a lui.
(…)
L’aula della corte d’assise di Gonuro, sita a ridosso del muro di cinta del carcere in cui da alcuni mesi era recluso, gli apparve quasi bella nella sua austerità.
(…)
Una locuzione in latino, incisa da qualcuno passato da quelle parti prima di lui sulla parete della gabbia dove era stato rinchiuso, gli strappò un sorriso: «Omnia munda mundis». Tutto è puro per chi è puro. Chissà se quella frase era stata scritta prima o dopo la sentenza.

La mia storia personale
di Antimo d’Amico

Non ti svegli una mattina e decidi di collaborare con la giustizia. Non è così che funziona. Ci sono dei motivi che ti spingono a una scelta così difficile.
(…)
Ho denunciato la camorra, mi sono accusato di un mucchio di reati per conto della camorra stessa.
(…)
La vita del pentito non è bella, perché sei sempre circondato da poliziotti…
(…) A te ti tolgono dal clan e ti proteggono perché hai le porte chiuse nella malavita e non hai più credito, ti spremono come un limone fino a che possono, poi ne usano un altro e ti ritrovi magari punto a capo a sbagliare di nuovo commettendo reati. Perché dopo un po’ ti tolgono la protezione e ti liquidano con soldi che non bastano per continuare a vivere e a nascondersi.
Vivere con un passato da pentito non è facile perché devi camminare nell’ombra, devi essere invisibile, vivi sempre con la paura perché sai che sei un morto che cammina e la morte è sempre dietro la porta. Tremi al pensiero di essere riconosciuto da qualche balordo di vecchia conoscenza.
(…)
Io sono sopravvissuto ancora oggi perché uso i metodi della polizia: come camminare senza farsi vedere allo scoperto, per esempio. Ho fatto una specie di corso a furia di stare sotto scorta per cinque anni, e qualcosa ho imparato.
(…)
Ho fatto anche da infiltrato per catturare spacciatori della malavita organizzata, quando ero a conoscenza di qualche partita di droga.
La prima volta fu in carcere. Ero infiltrato nel “penale”. Collaboravo con i giudici per il mio processo. In carcere ero sottoposto a grande sorveglianza e sotto censura di corrispondenza e con la censura anche ai colloqui, avevo un agente della penitenziaria vicino e venivano registrate pure le conversazioni che avevo con mia moglie. Era tutto un trucco per mimetizzarmi: della copertura erano al corrente solo il comandante del carcere e il direttore.
(…)
Ogni volta che entro in un carcere quando vengo arrestato, devo fare sempre presente chi sono, un collaboratore di giustizia. Non posso stare tra i detenuti comuni, non dirlo è troppo pericoloso, giochi con la vita.
(…)
Fui portato al carcere di Messina per un interrogatorio dai giudici del pool antimafia, ero chiuso in isolamento e fuori alla mia cella avevo un agente fisso ventiquattr’ore su ventiquattro, mi assaggiava anche il cibo su disposizione dalla procura, erano anni caldi.
(…)
Sono stato trasferito in un carcere più sicuro. La mattina alle cinque dovevano portarmi via, in Matricola c’erano i carabinieri ad attendermi, con gli schiavettoni, le famose manette con il lucchetto, e la catena. Per sbaglio mi stavano legando con uno dei miei coimputati che era dentro per omicidio e che era stato arrestato su mie dichiarazioni.
(…)
La paura di morire c’è sempre anche se sono passati venti anni: ho toccato la camorra, la sacra corona unita e la ’ndrangheta.
(…)
Da dentro a queste mura ho conosciuto una donna per corrispondenza, è stata lei a volermi conoscere, perché ero già in contatto con la sorella. Sono quasi due anni che ci scriviamo e tra noi è nato un rapporto sentimentale. Ci raccontiamo anche le cose più banali per sentirci vicini.
Lei ha trentasei anni ed è separata, e non ha un passato come il mio. Questa donna non mi fa mancare una riga, mai. Spero di poter trovare una vita più onesta. Per dormire tranquillo con la testa sul cuscino sia per me che per lei. Perciò le ho promesso che proverò a cambiare.

Il Premio Letterario

Prima edizione Premio letterario Goliarda Sapienza
“Racconti dal carcere”

I venti racconti finalisti sono i migliori pervenuti al premio letterario Racconti dal Carcere, intitolato alla scrittrice siciliana Goliarda Sapienza (1924-1996), ideato da Antonella Bolelli Ferrera .
Nato sotto il patrocinio della SIAE, del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di Pubblicità Progresso, il premio ha una madrina d’eccezione, Dacia Maraini, ed altri prestigiosi sostenitori e simpatizzanti nel mondo dell’arte e della cultura, come Lucio Dalla, che ha offerto come simbolico accompagnamento del premio la sua celebre canzone Una casa in riva al mare, dedicata al tema della detenzione.
Il premio è rivolto a tutti i detenuti – comunitari ed extracomunitari – con pena definitiva, presenti nelle carceri italiane.
Di oltre trecento racconti in concorso, solo tre saranno i vincitori, selezionati per le categorie: a) migliore storia b) più intenso processo di riflessione interiore c) migliore descrizione della vita dentro il carcere.
Vi saranno inoltre un 2° e 3° classificato per ogni categoria.
La giuria è composta da affermati giornalisti e scrittori italiani: Roberto Cotroneo, Daria Galateria, Adriana Pannitteri, Andrea Purgatori, Marino Sinibaldi e Cinzia Tani.
Agli scrittori-detenuti selezionati, sono stati affiancati venti tra i più importanti autori italiani che, in qualità di “tutor”, hanno prestato la loro penna per dare una più compiuta impronta letteraria ai racconti.

C’è uno stretto legame tra il premio ed alcuni programmi radiofonici che Antonella Ferrera scrive e conduce da molti anni su Radio 3, come La storia in giallo e Cuore di tenebra, che trattano anche in forma sceneggiata, storie di vite “al limite” e vicende del passato a tinte forti. Spesso, i protagonisti sono grandi figure di intellettuali (anche molti scrittori!), che hanno conosciuto l’esperienza del carcere o dell’emarginazione (politica, culturale, religiosa, razziale) e che da questa hanno tratto ispirazione per le loro opere. Comunque, una maggiore sensibilità umana ed artistica.
Da qui, l’idea di un ribaltamento delle condizioni di partenza: perché non creare un’occasione di far scoccare quella scintilla a chi si trova a scontare una pena? La scrittura questo potere ce l’ha.

Autori finalisti e Tutor

gli autorii tutor
FEDERICO ABATISusanna Tamaro
ELETTRA AMBROSINILidia Ravera
MICHELE CELANOMassimo Lugli
PIETROPAOLO CHIUCHINIMarcello Veneziani
AGNESE COSTAGLISandra Petrignani
ANTIMO D’AMICOGiancarlo De Cataldo
FERDINANDO DAVIDEFranco Cordelli
FABRIZIO FORCINAFederico Moccia
DOINA MATEIFranca Leosini
CARLO MUSUMECIBarbara Alberti
SEBASTIANO PRINONicola Lagioia
COSIMO REGAMassimo Carlotto
VINCENZO ROMANOVincenzo Consolo
ANGELO RUBIUErri De Luca
CARMELA MACRÌEdoardo Albinati
CIRO MARIANOMaurizio Costanzo
MARIO MEROLLARenato Zero
DAVIDE MESFUNMassimiliano Griner
AURORA SPANÒGiordano Bruno Guerri
VIOREL DANIEL TALOSLiliana Madeo

La Giuria

Elio Pecora

Presidente della Giuria

Riconoscimenti

PATROCINI: Ministero della Giustizia, DAP – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Siae – Società Italiana degli Autori e Editori, Fondazione Pubblicità Progresso.

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Il Premio a cura di

Dacia Maraini

Madrina del Premio